Non è rianimato.
E nemmeno solo presente nella nostra memoria, come un condottiero del passato o un rivoluzionario.
Non è un uomo mitizzato, un simbolo di lotta, come Gandhi o Luther King.
È veramente risorto.
Era morto, esanime, irrigidito.
La morte lo aveva sconfitto. O così si illudeva.
E i suoi discepoli erano fuggiti. Prima gli apostoli, poi anche le donne.
Solo il giovane era rimasto a presidiare la tomba vuota. Quel giovane che è il lettore.
Quel giovane che, storicamente, era il catecumeno cui era destinato il vangelo di Marco e che si era identificato, ascoltando il racconto proclamato durante la Veglia Pasquale.
Bel finale, bravo Marco, complimenti a Pietro, suo mentore e maestro.
Solo che, ad un certo punto, qualcuno fra i neo-discepoli si è accorto che non era poi così semplice.
E che l’entusiasma del neofita doveva fare i conti con i dubbi e le resistenze.
Con l’uomo vecchio che ci tormenta. E che ci scoraggia. E con l’avversario che, dopo i primi bagliori, insinua mille dubbi.
È allora che interviene Giovanni.

Troppi dubbi
È un problema che deve avere impressionato l’evangelista.
E che lo ha spinto ad aggiungere alcuni dettagli al suo vangelo.
Gli altri evangelisti non avevano avuto difficoltà nell’ammettere e raccontare le tante incoerenze degli apostoli. E della loro fatica nel credere. Ma, evidentemente, il messaggio non era stato così chiaramente recepito e i discepoli della seconda e terza generazione si lamentavano con lui.
“Beati voi che avete visto!”.
No, certo, replicava Giovanni. Anche chi ha visto non ha capito. Anche chi ha assistito ai miracoli non ha capito. Anche chi era nel gruppo dei Dodici non ha capito. E non è l’evidenza che converte ma la fede che è fiducia.
Credere è fidarsi.
Allora come oggi. Nessuno mai dimostrerà che Dio esiste. O non esiste. O che Gesù sa veramente risorto. O sia solo un simpatico mito. O che l’interpretazione degli eventi che diamo noi cattolici sia quella corretta, a scapito di altre più fantasiose e accattivanti chiavi di lettura che ci propongono oggi. Nessuno.
Ci si fida della testimonianza degli altri. Fragili come noi. Spaesati come noi.
Ma che, misteriosamente, sono stati inviati dal risorto a raccontare il Vangelo. E a viverlo.

Birichino
È così Dio. Birichino, ingenuo, folle.
Sceglie i suoi discepoli fra gente poco adatta. Affida il più importante annuncio della storia dell’umanità a delle donne, categoria sottomessa al maschilismo imperante. E, in effetti, da bravi maschilisti, nemmeno gli apostoli credono alle donne e corrono a verificare.
Ma c’è un modo per giungere alla fede e conservarla, scrive Giovanni.
Imitare Tommaso.

Tommaso, che ci crede anche se non ci mette il naso
Tommaso è deluso, amareggiato, sconfitto.
Il suo terremoto ha un nome: crocifissione.
Lì, sul Golgota, ha perso tutto: la fede, la speranza, il futuro, Dio.
Ha vagato per giorni, come gli altri, fuggendo per la paura di essere trovato e ucciso.
Umiliato e sconvolto, si è trovato al Cenacolo con gli apostoli che gli hanno raccontato di avere visto Gesù.
E, lì, Tommaso si è indurito.
Giovanni non ne parla, tutela della privacy, ma so bene cosa ha detto agli altri.
Tu Pietro? Tu Andrea?… e tu Giacomo? Voi mi dite che lui è vivo?
Siamo scappati tutti, come conigli; siamo stati deboli, non gli abbiamo creduto!
Eppure, lui ce l’aveva detto, ci aveva avvisati. Lo sapevamo che poteva finire così, e non gli siamo stati vicini, non ne siamo stati capaci. Ora, proprio voi, venite a dirmi di averlo visto, vivo? No, non è possibile… come faccio a credervi?
Tommaso è uno dei tanti scandalizzati dall’incoerenza di noi discepoli.
Eppure resta, non se ne va, stizzito. E fa bene. Perché torna proprio per lui, il Signore.
E l’incontro è un fiume di emozioni. Gesù lo guarda, gli mostra le mani, ora parla.
Tommaso, so che hai molto sofferto. Anch’io, guarda.
E Tommaso crolla. Anche Dio ha sofferto, come lui.
L’unico modo per conservare la fede è restare nella comunità, anche se fragile.

Beati noi
Beati noi che crediamo senza avere visto.
Senza avere visto Cristo o gli apostoli. Senza vedere, a volte, coerenza a passione nelle comunità ma, piuttosto, abitudine e affaticamento.
Beati noi che non ce ne andiamo, che non ci sentiamo migliori, che soffriamo per la Chiesa che amiamo. Beati noi che vogliamo cambiare le cose che non funzionano a partire dai noi stessi.

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