“Fra voi non sia così”: è il tema che ricorre in queste ultime settimane dell’annodi Marco e che ci invita a riflettere sul nostro modo di essere Chiesa.
Il Signore ha descritto bene l’atteggiamento naturale, spontaneo che abbiamo rispetto ad alcuni temi spinosi: il potere (”Chi è il più grande?”), la diversità (“Non è dei nostri”), l’affettività (“È lecito ripudiare la propria moglie?”) ed invita i discepoli a ragionare e vivere in maniera radicalmente diversa. Se è normale agire istintivamente, è evangelico scegliere di orientare le proprie scelte alla luce degli insegnamenti di Gesù.
Quella che il Nazareno chiede non è un’opprimente cappa moralistica ma, piuttosto, lo svelamento di una (bella) possibilità di vita alternativa che portiamo nel cuore.

The business is business

Oggi – ci mancava! – dobbiamo parlare del tema del denaro e del possesso.
Tema delicato perché – come l’affettività – affonda le sue radici in esperienze e desideri radicati nell’inconscio.
Cosa pensa il mondo della ricchezza? Senza cadere nel populismo o nel moralismo possiamo affermare con crudezza e realismo che in questo terzo millennio a comandare ogni scelta, a orientarla, è ormai l’economia.
Crollata l’epoca delle ideologie che hanno caratterizzato il secolo appena finito, siamo rimasti con un pugno di mosche in mano e la teoria del turbo-capitalismo, del liberalismo assoluto, della globalizzazione portatrice di benessere per l’umanità è proposta – de facto – come l’unica (l’ultima?) ideologia imperante.
L’economia gestisce il potere e le scelte, anche nel nostro piccolo mondo.
Se siete come me, cittadini senza grandi passioni per borsa e vicende del genere, siete però consapevoli di come l’aspetto economico sia diventato determinante nella nostra vita quotidiana e l’ipotetico e mai raggiunto livello di benessere, in realtà, condizioni la nostra vita in maniera assurda.
Occorre lavorare per produrre per guadagnare e comperare cose (spesso inutili) per tenere in piedi un’economia gonfiata.
E questo messaggio passa, (dis)educa, è sufficiente sentire i nostri ragazzi delle superiori: il lavoro che vogliono è – anzitutto – un lavoro che renda, il resto viene dopo. Spesso il nostro vecchio papa inascoltato ha fortemente criticato questa impostazione, svelandone l’intrinseca fragilità e ingiustizia.
Qui e ora siamo chiamati a vivere, questo è il tempo in cui siamo piantati: per mantenerci dobbiamo lavorare in due in famiglia, per comperare un alloggio popolare occorre contrarre un mutuo di vent’anni (!) molti anziani, dopo una vita passata a lavorare, faticano ad arrivare alla fine del mese.

Tutti francescani
Non ho mai conosciuto nessuno che mi dicesse: io vivo per far soldi.
Ma, allora, da dove vengono tutte le liti furibonde per questioni di eredità? Amicizie definitivamente affossate per un prestito mai restituito? Dobbiamo ammetterlo: il possesso fa parte della nostra natura, l’accumulo ci è connaturale, la soddisfazione dei bisogni – veri o presunti che siano – muove la nostra vita. E chi vende lo sa bene.

L’originale
E Gesù cosa dice?
Gesù non condanna tout court la ricchezza, né esalta la povertà.
Lo dico perché spesso noi cattolici scivoliamo nel moralismo criticando i soldi (degli altri) e invitando a generosità (sempre gli altri). Gesù ama il giovane ricco, lo guarda con tenerezza, vede in lui una grande forza e la possibilità di crescere nella fede. Gli chiede di liberarsi di tutto per avere di più, di fare il miglior investimento della sua vita.
Gesù frequenta persone ricche e persone povere, è libero.
Ma ammonisce noi, suoi discepoli: la ricchezza è pericolosa perché promette ciò che non può in alcun modo mantenere.
(Mi impressiona parlare con amici turisti “realizzati”: splendido e redditizio lavoro, benefit a non finire, ambienti di qualità, per poi scoprire in loro le stesse ansie e le stesse preoccupazioni di chiunque.)
Dunque, dice Gesù, la ricchezza può ingannare, può far fallire miseramente una vita, la pienezza è altrove, non nella fugace emozione di avere realizzato il sogno di possedere il giocattolo prezioso cui anelo. Ma la povertà non è auspicabile, la miseria non avvicina a Dio ma precipita nella disperazione.
Perciò il Signore ci chiede di avere un cuore libero e solidale: la povertà è scelta dai discepoli perché ci è insopportabile vedere un fratello nella miseria, tutto lì.

Diversi
Ancora una volta il Signore ci chiede di essere diversi, il “fra voi non sia così” che è caratterizzato, in questo caso, dalla scelta della condivisione e della essenzialità, del soccorrere le povertà e accontentarsi mantenendosi nell’essenzialità, senza finire nella spirale della cupidigia.
Elemosina, condivisione, dono, sono ancora i protagonisti di una sana vita da discepolo, senza affannarsi dell’accumulo ma coscienziosamente affidandosi a quel Dio che veste splendidamente l’erba del campo.
E questa logica deve permeare anche i rapporti nelle comunità, i soldi delle comunità che servono all’annuncio del vangelo senza fumosità, senza ambiguità. Se facciamo parte di una comunità manteniamola anche economicamente, chiediamo e offriamo trasparenza, orientiamo le nostre scelte a servizio dell’annuncio.
Che tra noi, nelle nostre chiese, nelle nostre scelte, prevalga sempre la generosità e la fiducia nella Provvidenza al calcolo che appanna la libertà che dobbiamo tenere nei confronti del possesso.
Facciamoci dono, facciamo della nostra vita un dono e avremo – stupore – cento volte tanto, come sperimenta Pietro.

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