Eucarestia – 1

L’eucarestia, l’ultima Cena, è il culmine della storia di Gesù. Per concludere la sua opera, Luca mette il cuore del suo vangelo, come in un crescendo di un’opera sinfonica: raccoglie tutti i temi proposti nei precedenti capitoli e li elabora in un impressionante finale. L’ultimo atto inizia qui, con questa Cena che è la presenza del Signore. Lui desidera ardentemente di mangiare la Pasqua con noi: il suo cuore brucia come una fiaccola, la sua Presenza è un incendio d’amore. E Gesù compie, a conclusione di tutto ciò che ha detto e fatto, un gesto che nessuno, neanche gli apostoli, sarebbe riuscito a immaginare: si consegna e si lascia massacrare. I suoi non sono soltanto bei discorsi, vuote parole! Il gesto della morte in croce è definitivo, inequivocabile: non può essere interpretato, ma solo accolto. Gesù sta per vivere l’amore fino al paradosso del tutto, come più volte ha predicato. In questo gesto, ci dice: “Il tuo cuore è indurito, non hai capito che ti voglio bene, l’unico modo per farti capire quanto mi sei prezioso, è che il mio amore diventi sangue versato, dono totale.” Giovanni introduce la Passione nel suo vangelo dicendo:
“Gesù, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo li amò fino alla fine” (Gv 13,1)
Gesù sceglie di donarsi a ciascuno di noi in un modo semplice, povero, scandaloso. Un modo che ci riempie la testa di dubbi: “Come è possibile: un po’ di pane, un po’ di vino e devo credere che Gesù è presente….” Pascal vi risponderebbe: “Se credo che Dio è diventato un uomo, non faccio nessuna fatica a credere che si possa fare pane e vino.”.. Gesù accetta il rischio dell’incomprensione. Ancora oggi si consegna. Nelle nostre Eucarestie slavate, senza fede, affrettate. reinterpretate, Gesù accetta di non essere capito.
L’antropologia ci dice che l’uomo è l’unico animale che riveste il gesto del mangiare di un significato che va al di là dello sfamarsi, del nutrirsi. Tutti gli altri animali si contendono il cibo, l’uomo no. L’invitare a cena qualcuno, condividere il cibo con qualcuno, è come darsi in pasto, farsi mangiare. È bello che la nostra cultura italiana abbia coltivato il senso del pasto come momento d’incontro… altro che ‘fast-food’! Gesù assume questo simbolo e lo riempie di significato: si fa mangiare. Un po’ come quando si vede una mamma con il proprio neonato che dice: “Ti voglio talmente bene che ti mangerei!” Il gesto che Gesù fa è estremamente drammatico. E ogni volta che lo ripete lo fa rivivere. Le nostre Eucarestie non sono uno spettacolo: “Andiamo a vedere cosa dice oggi il prete….” È un gesto che è autentico, intenso, carico di significato. Ed è, questo significato, quello di ritrovarci a rifare l’ultima cena, un ordine esplicito di Gesù. Quando il Signore dice: “Fate questo in memoria di me”, vuole davvero che i suoi fedeli rifacciano quel gesto che ci riunisce e che lo renda presente.

“Ho desiderato ardentemente …”
“Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi” (Lc 22,16)

Gesù dice che desidera ardentemente di condividere la Pasqua con noi. Ma noi desideriamo davvero ardentemente di condividere la Pasqua con lui? Lo desideriamo veramente questo cibo? Questo stare assieme? Un po’ come a Betania, quando Gesù sopraggiungeva in casa di Marta, Maria e Lazzaro che si alzavano con gioia da tavola per dire: “Dai, aggiungiamo un posto, Maestro, fermati qui ….” E penso a quando celebro l’eucarestia: all’inizio ci sono 100 persone in Chiesa, alla fine della prima lettura 120 e alla fine dell’omelia 160! Che tristezza! Si ripete il dramma descritto da Giovanni: Dio si consegna e l’uomo dice “No, grazie! Scusa Dio, sei tanto buono, mi vieni a portare la felicità, la luce, la pienezza, ma, cosa vuoi, ho tante di quelle cose da fare!” Ma, statene certi, Dio non si scoraggia, continua ugualmente, imperterrito. Quante volte mi è successo di celebrare l’eucarestia quotidiana nella parrocchia in cui stavo, in due: io e la suora. E pensavo: “Ecco, il dono, di nuovo, cade nel nulla.” E magari a trenta metri dalla Chiesa c’era gente angosciata, persa, vuota, che cercava senso e pienezza e Dio, lì, a consegnarsi, solo. Gesù si consegna nel memoriale dell’eucarestia e dice:
“Questo è il sangue della Nuova Alleanza” (Lc 22,20) .
Di quale alleanza si parla? Di una “nuova.” Ricordate la bella profezia di Geremia:
“Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò nel loro cuore” (Ger 31,31-34)?
L’Alleanza è cambiare il cuore, togliere quello di pietra per metterne uno di carne. La nuova Alleanza è scritta nel più profondo di noi stessi, è seguire la legge dell’amore col cuore, non con la testa! La fede cristiana, ricordiamocelo, non è in alcun modo un ragionamento, un insieme di norme da rispettare, un codice esterno di comportamenti. È un cambio di cuore, Un incontro che ti permette di agire in maniera diversa. Quanta distanza tra le nostre Eucarestie e la nostra vita … Quanta triste distanza … Mi viene in mente il gesto profetico, duro, fatto un giorno dall’Arcivescovo di New York, che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente. Era una Solennità e stava entrando in Cattedrale e, sul sagrato, un povero chiedeva l’elemosina; la gente, entrando in Cattedrale salutava il Cardinale e quasi ignorava il povero. Arrivato al momento della consacrazione, spinto dallo Spirito, si è fermato, ha tolto la casula e ha detto: “Scusate, non me la sento di continuare: non possiamo metterci in ginocchio e riconoscere Gesù eucarestia e non riconoscerlo qui fuori che mendica ….” Un gesto forte, profetico, che ci segnala l’urgenza di creare un minimo di coerenza tra la nostra preghiera e la nostra vita.
Fermiamoci un momento sul termine “memoriale” che traduce l’ebraico “Zikkaron.” Dobbiamo fidarci di chi conosce le Scritture, degli studiosi che passano decenni sull’interpretazione di un verbo, su chi conosce la distinzione fra l’ebraico del I secolo e quello del III eccetera eccetera. Perché? Bé, quando sento qualcuno che dice: “Ma no, Gesù non intendeva dire che la sua presenza è reale, figuriamoci! Voleva dire che dobbiamo ricordarci di lui, farne memoria, ricordo …” mi chiedo che conoscenze tecniche abbia del mondo ebraico! Rischiamo veramente di fare figuracce nell’esprimere certi giudizi… “Zikkaron”, che noi traduciamo con approssimazione “memoria”, significa in realtà “memoriale” che anche nella nostra lingua non dice molto. Per un ebreo “memoriale” è un gesto che rende presente ciò che significa. Non è un simbolo che indica la realtà, ma un gesto che la riproduce, la riattualizza… Il bacio che si da’ alla persona amata è un simbolo, certo, ma nel contempo suscita l’amore, lo esprime, lo rende leggibile, è un memoriale. Il problema, amici, non è chiedersi: “Gesù é presente oppure no?” ma “Ci credo o no?” Gesù è presente, che ci creda o no, che mi piaccia o no egli è presente. Quando mi dice: “Fate questo in memoriale di me”, intende dire: “(Ri-)fate questo (gesto) se volete che sia presente in mezzo a voi.” Nel vangelo troviamo numerosi riferimenti a questo memoriale: dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci, a cui Giovanni farà addirittura seguire una esplicita catechesi sull’eucarestia, fino al viaggio “eucaristico” di Emmaus che vedremo. A conferma di quanto dico, vi cito uno dei più autorevoli biblisti italiani, Gianfranco Ravasi:
“Il ricordare biblico non ha niente a che vedere con le semplici commemorazioni patriottiche. Nella Bibbia l’appello a ricordare significa un impegno efficace per il presente. Perciò “Fate questo in memoria di me” non vuol dire celebrare la commemorazione della morte di Gesù, ma è ricordare che questo evento passato, che ora stiamo compiendo, sta ora per realizzarsi e continuerà. Il memoriale è tridimensionale: s’affaccia sul passato, è presente adesso e lo sarà nel futuro.”

L’incomprensione degli apostoli
“Ma guai a quell’uomo dal quale (il Cristo) è tradito.” Allora essi cominciarono a domandarsi chi di essi avrebbe fatto ciò. Sorse anche una discussione: chi di loro poteva essere considerato il più grande. (Lc 22,24)

Nel momento tragico del dono totale della sua vita, Gesù deve sentire gli apostoli che discutono di chi è la colpa e chi è il più grande. Sentite lo stridore? Luca lo mette qui appositamente. Gli apostoli non hanno ancora capito il valore del dono, non hanno colto ciò che sta succedendo, non ne colgono la dimensione. Capiranno solo quando saranno masticati dalla croce, quando la loro fede smetterà di essere una adesione sensibile ed emotiva al Rabbì Gesù per riconoscere in lui il Dio della gloria. E mi vedo le discussioni prima o dopo le nostre celebrazioni su chi si mette in mostra per il canto, sulle discussioni di chi è più o meno nelle grazie del parroco, sui musi tirati per un lettore scelto al posto di un altro … Che tristezza! Anche noi, come gli apostoli, capiremo veramente chi è il Signore Gesù solo quando la nostra fede sarà piantata ai piedi della croce, come un parafulmine, quando la nostra fede si staccherà dalle piccole soddisfazioni degli “addetti al sacro” per diventare autentici. Ancora una volta la dura Parola del Prologo di Giovanni si realizza: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11). La Passione, amici è già iniziata. Davanti al dramma di un Dio che si consegna, l’uomo guarda l’orologio perché ha fretta di finire la Messa. Che dramma! E qui apro una parentesi “artistica.” Mi ha sempre impressionato la rappresentazione della Passione nei tentativi più o meno validi dei vari registi che hanno voluto fare un film sulla vita di Gesù. Bene: sarò schietto. credo che molti non abbiano colto il vero dramma della Passione. Durante il tragitto di Gesù al Calvario, statene certi, non c’erano le due ali di folla urlanti. Macché; probabilmente, come oggi, bisognava farsi largo tra i banchi dei venditori di spezie per uscire dalla città. A Gerusalemme, in quell’epoca, i romani crocifiggevano fino a cinque prigionieri a settimana. Cosa volete che interessasse quel falso profeta colto in flagrante delitto di bestemmia? È, se volete, la rappresentazione plastica dell’indifferenza. L’unico regista che mi ha profondamente colpito è quel geniaccio di Tarkowski, nel suo “Andreij Rublev.” In una scena chiave del film, durante un colloquio tra il monaco pittore di icone Rublev e un suo amico a proposito della misericordia, in sovrimpressione compare una scena della Crocifissione, in uno scarno bianco e nero, ambientata nella steppa russa, in pieno inverno. Gesù che trascina la croce su di un pendio innevato , Maria e le donne infagottate in un goffo cappotto e Gesù che, prima di farsi inchiodare, si soffia sulle mani per riscaldarsi … Una scena agghiacciante nella sua nudità: Dio si consegna alla nostra indifferenza. Il suo amore è totale, definitivo.
Non sono le belle parole di un predicatore di esercizi, quelle che abbiamo dinanzi in quest’ultima Cena, ma un amore che diventa chiodi, sangue, ossa spezzate. Morte che significa che Dio non è un affabulatore, un venditore di sogni, ma un Dio che ci ama fino alla morte, nonostante la nostra indifferenza, senza aspettarsi nulla da noi …

(da “Il Gesù di Luca e di Matteo”, appunti, 1997)