Oggi la Parola mette a fuoco due atteggiamenti indispensabili nel discepolato di Gesù, tema che stiamo sviluppando in questa lunga estate: l’umiltà e la gratuità.
Parlare di umiltà in questi tempi in cui una certa visione dell’uomo spinge ad esaltarne le potenzialità e l’autorealizzazione è perlomeno ardito ma, a scanso di equivoci, sgomberiamo prima la mente da false interpetazione, suscitate – spesso – da una non corretta visione della fede.
Umiltà significa verità di sé, e deriva dalla parola latina "humus", terra.Terra significa realismo, stabilità, fecondità; potremmo dire che l’umiltà è la virtù della concretezza che porta frutti. L’umiltà, mi preme dirlo, non è in alcun modo un atteggiamento autolesionista che mi porta a svalutarmi. Non è umile chi dice a Dio: "Non valgo a nulla, faccio schifo". E’ una persona depressa, non una persona umile! Pensate davvero di far piacere a Dio dicendo che non valete nulla? Che ridere! Il Signore mi ha creato come un capolavoro e io, di risposta, gli dico che mi ha fatto come uno sgorbio! No: esiste una parte distruttiva, tenebrosa della realtà che giustamente mi fa paura: è l’ansia del non valere, del non contare. Viviamo in un mondo in cui – continuamente – dobbiamo dimostrare ciò che valiamo. Anzi, se le cose non funzionano, siamo noi per primi a darci addosso a non accettare i nostri difetti e un giudizio negativo detto da un altro vale più di mille pensieri positivi e mi mette di malumore per tutta la giornata. Siamo sinceri: la più grossa fatica che facciamo è proprio quella di amarci, senza condizioni (come Dio ciama, senza condizioni). Manca di umiltà chi non riesce a vedere il positivo che Dio gli ha messo nel cuore e, tutto ripiegato sui suoi difetti, non sa far fiorire quel tanto di bello e grandioso che Dio ha dato a ciascuno a servizio del bene di tutti. Ed è ovviamente lontano anni luce dall’umiltà quell’atteggiamento di esteriorità esasperata, di supponenza, di egocentrismo così esaltato in questi tempi. Sei ciò che appari, sei ciò che guadagni, sei il tuo corpo – suggerisce insistente il mondo dei media.
"Sei mio figlio" suggerisce Dio.


L’umiltà, quindi, è prendere coscienza di ciò che valgo, è equilibrio con lo sguardo costantemente rivolto verso Dio. Sarò schietto: nella mia esperienza di prete raramente ho trovato persone che non cadessero in questi due eccessi: o costantemente scoraggiati di sé o esaltati nell’apparire migliori di ciò che sono.
Bene: il discepolo può permettersi di essere ciò che è veramente, senza maschere, senza falsità.
So ciò che valgo perché Dio me lo ha svelato; non ho bisogno di essere il nano delle mie paure o il gigante dei miei sogni. Sono – e ciò mi basta. E sono per una qualche ragione che devo scoprire. Il nostro mondo insiste – a ragione – sull’autorealizzazione. In un mondo esasperato dal concetto di collettività, di massa, di popolo, la reazione è quella di esistere come singolo a tutti i costi.
Ma il Vangelo va ben oltre: ti realizzi se ti perdi, guadagni se dai, così come Gesù stesso ha vissuto in prima persona.L’autorealizzazione non è un ammirato egoismo, un "me" idolatrato e lustrato al mattino. No: scopro di essere un tassello nel mosaico dell’Universo e faccio il possibile per scoprire il mio posto e realizzarlo. Tutto questo con serenità e pace: Dio ha fiducia in me, mi chiede solo di lasciarmi amare e il suo amore mi trasforma. Dio non mi ama perché sono amabile ma – amandomi – mi rende amabile.
Lo scoprire di essere amato mi mette le ali, cambio vita, il mondo ha senso e mi sorride e io ho un progetto (ognuno, ciascuno, senza eccezioni) che voglio e posso realizzare. La gratuità è lo stile con cui vivo: amato "a gratis", senza condizioni, amo senza condizioni. Amo e basta, in un mondo monetizzato in cui tutto è commercio io vivo a gratis, gioisco a gratis, aiuto a gratis.
E la vita – credete – diventa un banchetto nuziale!

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