Il deserto, ormai, volge al termine. Abbiamo seguito il Rabbì nei quaranta giorni della quaresima, cercando di convertire il nostro cuore, sforzandoci di cambiare l’immagine mediamente orribile di Dio che portiamo nel cuore. Vorremmo un Messia muscoloso e trionfante. Gesà è un Messia mite e mediocre. Abbiamo idea che la fede sia doverosa ma mortalmente noiosa. Gesù ci parla della immensa bellezza di Dio. Ci rivolgiamo a Dio come quando contrattiamo un favore. Gesù ribalta i banchetti dei nostri mercati per svelarci il volto di un Padre che sa di cosa hanno bisogno i propri figli. A volte pensiamo che Dio sia misterioso e incomprensibile, che ci mandi delle prove nella vita. Gesù dice che l’unico desiderio di Dio è la mia salvezza. Ci avviciniamo alla croce con superficialità: Gesù morirà in croce, Dio nudo e consegnato, per svelare in maniera inequivocabile il vero volto di Dio.
Siamo pronti ormai, alla fine di questo percorso, a sederci e guardare lo scandaloso evento della croce. Come il giovinetto citato da Marco nella sua Passione (14,51), scandalizzati e inorriditi siamo chiamati a seguire il Maestro nel suo dono d’amore. L’ultimo. Il più grande.
Una settimana diversa, “santa”
La settimana che oggi iniziamo, così grande, così importante da essere chiamata "santa", è il gioiello dell’anno liturgico, una perla troppo spesso dimenticata da noi cristiani, a vantaggio di feste forse più sentimentali ma intrise di riletture consumistiche (vedi il Natale).
Qui no. Un morto in croce non si vende, non suscita sentimenti di bontà.
Anzi: se ne parla poco e male di questo Dio che sale su di una croce e muore.
Rimane difficile da capire il mistero di una tomba vuota e del significato profondo della parola "resurrezione".
Tant’è:la Chiesa si ferma stupita a meditare sulla misura dell’amore di Dio.
Normalmente l’anno liturgico sintetizza la Storia della salvezza in poco tempo: in dodici mesi ripercorriamo storia di Israele, la vita di Gesù.
Durante la settimana santa, invece, ci si ferma: giorno per giorno, ora per ora, regoliamo i nostri orologi e il nostro tempo a quel momento cruciale per la storia dell’umanità, ci sediamo, spettatori, ad ammirare (ancora e ancora) il volto di Dio.
Fermi, zitti, Dio si prepara a morire, Cristo celebra la sua presenza nell’ultima Pasqua, la nuova, viene arrestato, condannato, ucciso, sepolto, vive.
In questa preziosa settimana, qualunque cosa faremo, in ufficio, a scuola, a casa, potremo fermarci, socchiudere gli occhi e pensare a Cristo, ai suoi sentimenti, alla sua angoscia, alla sua bruciante passione, al suo desiderio.
Ora per ora assisteremo, con gli occhi della fede, allo spettacolo di un Dio che muore per amore.
Rami di ulivo
E questa settimana inizia oggi, domenica delle Palme, gravida di ricordi da bambino, di rami di ulivo addobbati con caramelle e mele (i più fortunati con le uova di cioccolato) da sventolare in alto per manifestare la gioia dell’incontro con Dio.
Ironia dell’incoerenza umana: le stesse voci, le stesse braccia, non più con le palme aperte verso il cielo, ma con i pugni serrati, trasformeranno la loro gioia per il Messia, figlio di David, in un’invocazione terrificante, in un agghiacciante sete di morte, "Crocifiggilo!".
Uomo sciocco, come sciocchi e tardi nel credere siamo noi, ancora inconsapevoli del tesoro che abbiamo tra le mani, così disposti anche noi a trasformare la nostra preghiera di benedizione in invocazione di morte!
Eppure da quella croce pende il destino dell’uomo, con quel sangue è firmato il patto dell’Amicizia eterna di Dio, in quel pane è conservato il Cuore di Colui che desidera ardentemente di mangiare la Pasqua con noi.
Eccoci
Vi ritrovate in questo racconto? Ci siete? Dove?
Forse quest’anno vi sentite un po’ come gli apostoli paurosi e sconcertati, o come Pilato, ossessionato dal potere, o vi ritrovate nella trama intrigante e sconclusionata di Giuda, o nella sofferenza cruenta del Cireneo che porta la Croce, o nel desiderio di salvezza del ladro o, Dio non voglia, vi ritrovate nell’indifferenza di quei pii ebrei che, entrando in città, affrettando il passo per l’imminente temporale, gettarono uno sguardo di disprezzo verso gli ennesimi condannati a morte, feccia della società, che venivano esemplarmente puniti.
Lì, Dio moriva.
Su quella croce si consuma la follia di un uomo che inchioda Dio perché in Lui vede un concorrente, non un compagno, la fragilità dell’essere umano che rifiuta un Dio così arrendevole (lo vogliamo davvero un Dio così?).
Che razza di re, amici, che razza di Dio ci siamo scelti.
Un re da burla che entra a Gerusalemme cavalcando un asinello e non un cavallo bianco, un re oltraggiato e preso in giro da annoiati soldati romani, un re che suscita la compassione e il disprezzo dell’irrequieto governatore Pilato. Che razza di re, senza armate, senza potere, senza rabbia, senza delirio di onnipotenza. Dio ha scelto di stare dalla parte degli sconfitti, dei dimenticati, re – certo – ma dei perdenti e re senza riscatto, re senza trionfi, re senza improbabili finali da commedia americana. Un re nudo, appeso ad una croce, crudele trono, cinto da una corona di spine, un re talmente sconvolto da avere necessità di un cartello che lo identifichi, che lo renda riconoscibile almeno alle persone che l’hanno amato.
Questa è la non festa che celebriamo, che abbandona i trionfalismi per lasciare spazio alla meditazione, allo stupore. Questo è il vostro re, discepoli del Nazareno. Lo volete davvero un Dio così? Un Dio che rischia, un Dio che – per amore – accetta di farsi spazzare via dall’odio e dalla violenza? Lo volete davvero un Dio che rischia tutto, anche di essere per sempre dimenticato, pur di mostrare il suo volto? Un Dio che accetta di restare nudo, cioè leggibile, incontrabile, osteso, palese, evidente perché ogni uomo la smetta di costruirsi improbabili devozioni, scure visioni di Dio? Questo è il nostro Dio, un Dio amante, un Dio ferito, un Dio che fa dell’amore l’unica misura, l’ultima ragione, la sola speranza.
Auguri
L’augurio caloroso che mi faccio e che vi faccio, è di identificarci – un poco almeno – in quel Centurione straordinario, di cui la storia ha taciuto il nome, che davanti al modo di morire di Gesù, di fronte al dono di sé fino alla fine, rimane stupito, turbato, scosso fino nell’intimo e riconosce in lui il Figlio di Dio.
Ecco la fede, la grande fede, che può sgorgare nel cuore di ciascuno di noi: davanti all’uomo crocifisso, davanti alla sconfitta più assurda, davanti alla delusione di un sogno massacrato, riconoscere la potenza del Dio immortale.
Allora potremo cantare, con la liturgia del venerdì santo: "Dio santo, Dio forte, Dio immortale, abbi pietà di noi!".