Pietro, Elia, il popolo di Israele: oggi la Parola ci presenta questi tre modelli di discepolato con cui confrontarci nella concretezza della nostra vita di fede. Il Vangelo, anzitutto: Gesù fugge il delirio della folla che lo vuole fare re, dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, e si rifugia nella preghiera, da solo, sulla montagna. Gesù non brama un messianismo ridondante e celebrativo, non vuole una fede – che spesse volte ahimé è la nostra – basata sui miracoli. Pietro e gli altri devono nuovamente attraversare il lago di Tiberiade e lì, sul fare del mattino, vengono investiti dalla tempesta. Questo racconto è un’icona della Chiesa: aspettando il ritorno del Maestro, anche noi dobbiamo attraversare la Storia su di una fragile barca sbalottata dai venti. Ma è quasi mattino, fratelli. Questi duemila interminabili anni di cristianesimo hanno rappresentato una dura prova di fede per i cristiani: spesse volte dimenticando il Vangelo, spesse volte travolti dalle persecuzioni (che continuano!) i discepoli hanno assaporato e assaporano la fatica della fede vivendo – come diceva sant’Agostino – tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio. Come ciascuno di noi d’altronde: appena la Parola gettata dal seminatore attecchisce, pur convivendo con la zizzania che tende a soffocarla, ci mettiamo alla ricerca della perla preziosa nel segno della condivisione e – state certi – arriva una qualche prova nella fede. Una sofferenza, una stanchezza, una depressione: il vento gelido del dubbio, l’assenza del Maestro (sì esiste, ho incontrato il suo sguardo di compassione, ma ora è assente) ci allontanano dalla fede, ci restituiscono la vortice dell’inesorabile quotidianità, ci rendono pagani. Così Elia, dopo avere sfidato la regina Gezabele e il suo culto idolatrico a Baal, deve fuggire per non essere ucciso e vorrebbe morire, così Pietro e gli altri turbati dal vento contrario, stanchi di remare, così noi, fragili discepoli chiamati a sopravvivere dentro una modernità che anestetizza la nostra interiorità e ci allontana dal sé e dal vero. Ma proprio quando l’onda è alta su di noi, proprio quando ci sembra di essere sconfitti, qualcosa accade. Gesù cammina sulle acque tempestose e ci ripete: "coraggio, sono io, non abbiate paura". Pietro si tuffa, anche lui vuole camminare sulle acque, sulle difficoltà: si fida, muove i primi passi e poi miseramente sprofonda nel lago agitato. E Gesù, garbatamente, lo prende per mano. Davanti ai dubbi di fede, davanti alle tempeste della vita, il discepolo è chiamato, come Elia, ad ascoltare nel suo cuore il silenzioso mormorio di Dio, recuperando quella dimensione assoluta che è il silenzio, la preghiera, l’ascolto meditato del grande e quieto oceano della presenza di Dio. Troppo pagano è diventato il nostro cristianesimo, troppo efficentista, troppo rumoroso. Urge riscoprire un modo nuovo di pregare e meditare, un modo che attinga all’immensa tradizione cristiana usando parole nuove, adatte alla sfida attuale. Come Pietro, il discepolo è chiamato a gettarsi nelle braccia di Dio, sul serio. La fede è fidarsi, la fede è slancio nel vuoto, la fede è concreto abbandono. Ma troppe volte la nostra è una fede condizionata, tentennante, dubitativa: lasciamo aperta una via di fuga, convinti ma non troppo. E allora beviamo. Quando la smetteremo di tenere in mano il timone della nostra barca invece di affidarlo a Dio? Fidati, affidati, confida, diffida delle tue (piccole e fragili) sicurezze. Infine Paolo ci indica la fedeltà di Israele come modello: una fedeltà da imitare, una custodia della Parola che ammiriamo, fedeltà conservata con tenacia nella continua tempesta che Israele ha attraversato (e noi cristiani pure a bucargli la barca!). I nostri fratelli maggiori, amati, vivono ancora e sempre della fiducia nel Dio dell’Alleanza, di generazione in generazione. Animo, dunque, altri hanno già vissuto ciò che viviamo, altri hanno già attraversato il mare in tempesta.

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