Leggere Matteo e la sua straordinaria esperienza di vita mi riempie il cuore di gioia: davvero l’avere lasciato tutto ciò che credeva di possedere per seguire il Rabbì di Nazareth lo ha ribaltato come un calzino! Matteo ha scoperto il volto del Dio di Gesù, un Dio che ama i passerotti e ne ha compassione, che si commuove di fronte alla folla smarrita come pecore senza pastore, che pretende essere una gioia più grande della più grande gioia che possiamo vivere. La Parola, seminata abbondantemente anche nei nostri cuori, può portare frutto: anch’io, anche tu amico lettore, possiamo (ri)scoprire questo splendido volto di Dio. Come poter fare esperienza della bellezza di Dio in questo nostro fragile tempo, superando l’impaludamento di un cristianesimo solo sociale e culturale? Come riuscire a mantenere viva la mia fede nel delirio quotidiano delle cose da fare e della vita da vivere?
Il primo appiglio per scalare la parete dell’interiorità è l’amore alla Parola, la lettura profonda e meditata di questa Parola che, come una spada a doppio taglio, ci spacca a metà.
Frequentare la Parola ogni giorno, però, non basta: dobbiamo essere consapevoli che fare esperienza di Dio non significa necessariamente risolvere le contraddizioni che abitano il nostro cuore.

Zizzania
Zizzania: già il nome infastidisce per la sua durezza. La zizzania è una pianta infestante, una pianta che manda all’aria settimane di lavoro di chi ha la passione dell’orto o di chi lavora la vite. La zizzania cresce, seminata dal nemico, e si arrampica soffocando la pianta buona e – dice la parabola usata da Gesù – grano buono e erba malvagia crescono insieme, convivono, devono spartirsi il terreno. La saggezza del padrone ci stupisce: rimanda a casa propria gli zelanti servi che volevano un bel prato all’inglese, devotamente motivati a strappare la zizzania, `Pazienza`, dice il padrone, per non correre il rischio di strappare il grano buono nella foga risanatrice.
La Parola seminata domenica scorsa, il Regno di Dio cresce spartendo il campo con la tenebra, l’oscurità, la zizzania. E’ l’esperienza che tutti i figli della luce fanno prima o dopo: dopo duemila anni di Vangelo, talora proprio nei paesi tradizionalmente cristiani, l’erba malvagia sembra soffocare l’annuncio di salvezza.
A parole tutto funziona, ma nei fatti dobbiamo arrenderci all’evidenza: nonostante Cristo ci abbia salvato, l’uomo stenta ad imparare. Di più: anche nell’esperienza personale, dopo avere frequentato per anni il Signore, dopo una radicale conversione, devo fare i conti con la contraddizione che abita il mio cuore; conosco molti discepoli che fanno esperienza bruciante del proprio limite, proprio dopo avere creduto di averlo superato, grazie alla presenza del Maestro.
La salvezza è cosa seria e il Maestro Gesù sa che luce e tenebra si affrontano e che le tenebre fanno più rumore.
Sfogliate qualunque quotidiano e vedrete litanie di fatti orribili, leggerete del punto di non ritorno di molte situazioni, di raccapriccianti fatti di cronaca, di situazioni di ingiustizia all’apparenza insanabili; bene: voltate pagina e vedrete l’ultima notizia di gossip, la pubblicità del nuovo ritrovato per restare in forma venduto a caro prezzo. L’uomo contemporaneo urla il proprio desiderio di giustizia e di rettitudine ma rischia di dimenticarsene appena passata l’onda dell’emozione.
Non c’è che una cosa peggiore del male: abituarsi ad esso, renderlo quotidianità ineluttabile, fingere di ignorarlo, pensare che fra luce e tenebre, in fondo, sia meglio vivere in un bel nebbione.

Pazienza
In equilibrio fra delirio di onnipotenza per cui il male è sensazione soggettiva, ed un vetero-moralismo che troppe volte rende noi cristiani rabbiosi farisei, la Parola di Dio squarcia le tenebre con un’idea immensa, quella della pazienza.
La pazienza richiama il dolore (il patire da cui deriva la parola) e l’attesa. Pazientare è attendere con dolore, sapendo che il male avrà fine. Viviamo sulla nostra pelle la contraddizione del male che coabita col bene, anche nei nostri cuori, e il Signore ci chiede di lasciar fare a lui.
Ne siamo coinvolti, ovviamente, ne soffriamo, non gettiamo le armi, continuiamo a coltivare, ma sappiamo che il mondo non può essere un bel prato all’inglese o un giardino zen.
Pazienza figli del regno, pazienza, lasciate fare a Dio il suo mestiere.
Pazienza, discepoli del Maestro, viviamo tempi bui, in cui la ragione e la fede devono farsi strada con fatica in mezzo all’indifferenza e all’insignificanza.
Pazienza, discepoli del Nazareno, la guerra è già vinta, il giorno è avanzato, la verità – immensa – come torrente sotterraneo sta raggiungendo il mare.

Il Regno avanza
Io credo che il Regno avanzi.
E mi stupisco nel crederlo, mi commuovo davanti al silenzioso grano che cresce nello sguardo di chi ama, nel gioco puro del bambino, nel gesto generoso di chi – in nome e per conto del Rabbì Figlio di Dio – pone gesti di luce nelle tenebre fitte.
Pazienza, discepoli di colui che è venuto a portare il fuoco, pazienza nelle nostre povere e poco credibili comunità parrocchiali, pazienza nel vedere – nude – le fragilità dei nostri compagni di viaggio, pazienza quando un connaturale istinto di superiorità ci fa giudicare – con piglio tutto devoto – i fratelli che ancora (e sempre) misureranno la loro debolezza.
Abbi pazienza con te stesso, fratello che leggi.
Sappiamo bene che la voglia di dividere il mondo in buoni (noi) e cattivi (loro) ha portato i discepoli su orribili sentieri di violenza, in passato.
Per i cristiani il nemico non è mai l’altro, è dentro ciascuno di noi.
Senza cadere in perniciosi autolesionismi, guardiamo dentro noi stessi la zizzania (e – per una volta – chiamiamola per nome!) e guardiamo al grano buono seminato dal Signore. La contraddizione abita in ciascuno di noi, in me che scrivo. E’ pericoloso pensare di strappare definitivamente la zizzania prima che il grano sia giunto alla sua piena maturazione.
Pazienza, amico che leggi, se ti sembra che troppe tenebre ancora rovinino la tua vita: abbiamo tutta la vita per imparare a vivere, pazienza se pensavi di essere un prete migliore, un catechista migliore, un marito migliore: talvolta la bruciante esperienza del limite (Pietro insegna) ci spalanca la diga della misericordia. E ci rende simile a questo saggio padrone del campo.
Il mondo non ha bisogno di superuomini (supercristiani?) perfetti, ma di discepoli consapevoli del proprio limite, che attendono con passione al loro lavoro, amando questo mondo seminato a grano, consapevoli del proprio e dell’altrui limite, limite che Dio riempie di tenerezza.

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