Maria, prima dei discepoli, prima fra i risorti, capocordata della lunga ascensione verso il cuore di Dio, colei che si è lasciata fare dalla Parola, che ha saputo riconoscere la grandiosa opera di Dio nella Storia e nella sua piccola storia, ci invita a prendere sul serio l’opera di suo Figlio, a fare, come a Cana, ciò che egli ci dirà per trasformare l’acqua dell’abitudine nel vino nuovo della festa senza fine.
Prima fra i risorti, Maria è il modello umile e concreto dell’essere Chiesa, ieri come oggi.
E questo tempo, tempo faticoso, tempo ambiguo, lancia ai discepoli una sfida che è quella di sempre: parlare di Cristo.
La Chiesa, noi Chiesa, siamo chiamati a ridire l’essenziale, a parlare del Maestro.
In un tempo in cui il mondo parla continuamente (e male) della Chiesa, la Chiesa deve parlare di Cristo.
Non ripiegarsi su se stessa, non nascondersi dietro le barricate, ma fare memoria di essere chiamata, come profetizza Isaia, ad allargare le tende, a fare davvero del nostro messaggio un messaggio cattolico, cioè universale.
La Parola di oggi ci invita a guardarci dentro, a guardarci allo specchio per snidare i rischi del settarismo e della supponenza che da (e per) sempre abitano il cuore dei convertiti a Dio.
Di noi converiti.

E gli altri?
“Sono molti quelli che si salvano?”
Il devoto fedele che pone la domanda, evidentemente mettendosi tra il gruppo dei salvati, non sa in quale vespaio si è cacciato. È la tentazione di sempre: sapere se siamo in regola o no, se i punti accumulati per la promozione sono sufficienti, se – insomma – possiamo stare al sicuro, se il posto in Paradiso è prenotato.

Sono in regola
È la tentazione che colpisce noi discepoli, noi cattolici di lungo corso, quando smarriamo la dimensione dell’attesa (ricordate?), l’ansia del discepolato, quando crediamo che le mura della città siano talmente robuste da non necessitare, in fondo, della veglia della sentinella.
Colpisce come un cancro noi discepoli, quando, dopo una strepitosa e travolgente esperienza di Dio, sentiamo d’improvviso di essere entrati in un gruppo a parte, e guardiamo con sufficienza “gli altri”, quelli che non capiscono, che non conoscono, quelli che hanno fatto altri percorsi di Chiesa, quelli che la domenica, a Messa, si annoiano e non colgono la dimensione dell’interiorità, quelli che, fuori, non capiscono e ci attaccano, ci insultano, ci offendono, ci giudicano.
A noi, oggi, Dio rivolge la sua urticante Parola.
Mantenere la vita di fede necessita di uno sforzo, dice il Signore, occorre passare per una porta stretta.
La vita è fatta di alti e bassi, di momenti esaltanti e di fatiche immani, ma non esiste altro modo per vivere.
La lettera agli ebrei ci dice che possiamo vivere i momenti bui e faticosi come un’opportunità di conversione, per guardare all’essenziale. La prova è opportunità: possiamo ripiegarci su noi stessi e spegnerci o entrare più in profondità e scoprire il volto di Dio. La prova può diventare l’opportunità per una conversione, per un correzione di rotta, anche se mentre si vive se ne farebbe volentieri a meno.

La porta stretta
Il Vangelo è esigente, ovvio.
Non severo o difficile, ma autentico e impegnativo, come lo è salire su una montagna o affrontare una prova sportiva.
Il nostro mondo tende a semplificare la vita, ad appianare le difficoltà.
Bene, ottimo. Ma non sempre funziona. Disabituati alla lotta, troppi, oggi, gettano la spugna alla prima difficoltà, sul lavoro come nel rapporto di coppia.
Gesù ci ammonisce: per farsi trovare da Dio e restare nella sua luce bisogna faticare, lottare, non ci sono scorciatoie. Passare per una porta stretta.
Non nel senso di essere i primi della classe, o i bravi ragazzi, o i devoti col bollino: sono proprio questi coloro che, nella parabola, restano fuori perché Dio non li riconosce, non li ha mai davvero incontrati.
No, per entrare nel Regno bisogna gettare le maschere.
Anche quelle devote che indossiamo abitualmente

Tutta la vita per diventare cristiani
Ci vuole tutta la vita per diventare cristiani, tutta la vita per diventare uomini, tutta la vita per liberarci dai troppi condizionamenti che ci impediscono di cogliere l’assoluto di Dio in noi.
Attenti, allora, al rischio dell’abitudine, al modo più triste di essere cristiani, che è quello di credere di credere, di confondere la propria sensibilità, il proprio stile di preghiera, la propria esperienza in un gruppo con l’unico modo di essere cristiani.

Autenticità!
Ciò che il Signore chiede a noi discepoli è l’autenticità della ricerca, il sapere che non esistono posti privilegiati, che la vigilanza è l’unica dimensione che ci fa seguire le orme del Signore.
Niente primi della classe, nella comunità, niente tessera a premi, niente diritti acquisiti, ma ricerca umile e autentica.
Sempre.
Avremo delle sorprese, ammonisce il Signore.
Persone che giudichiamo lontane da Dio, persone che in cuor nostro devotamente giudichiamo come peccatori e lontani da Dio, li vedremo a mensa col Signore. Perché l’uomo guarda l’apparenza, Dio guarda il cuore. Sarà divertente incontrare nel Regno persone che mai avremmo immaginato! Dio solo conosce nel cuore la fede delle persone, lasciamo a lui il giudizio, noi, per quanto possiamo, pensiamo a convertire noi stessi: basta e avanza.
Animo, amici, Dio ci vuole bene e ci prende sul serio, ci scuote se necessario, ci invita, ora e sempre a diventare veramente discepoli secondo il suo cuore.
Proprio perché ci ama ci corregge, invitandoci a superare la tentazione del sentirci arrivati.
Evviva.

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