Gesù ama i paradossi.
Punta in alto, osa, sposta in alto l’assicella perché sa bene che noi uomini tendiamo sempre ad attenuare, ad annacquare, ad essere molto esigenti con gli altri e troppo condiscendenti con noi stessi. No, non è venuto a cambiare la strada che conduce al Dio di Israele, ma a portarla a compimento.
Le beatitudini sono la pienezza della Torah.
Stolto chi cambia anche solo un tratto di quanto egli dice.
Non vivere la radicalità del vangelo è come usare un sale scipito, come mettere la lucerna sotto allo sgabello: un’idiozia.
Nell’impegnativo discorso della montagna Gesù, con coraggio e autorevolezza inaudite, mette in discussione alcuni capisaldi della fede. Tradizioni umane spacciate per divine, temi molto sensibili che andavano a coinvolgere la sensibilità spirituale ma, ancora di più la vita concreta.
L’orizzonte è quello descritto dalla prima lettura: siamo chiamati a condividere la santità del Dio di Israele che non è una divinità separata dal mondo ma un amico che desidera la felicità degli uomini e si adopera perché essi la raggiungano…
Domenica scorsa abbiamo preso quattro questioni fondamentali: l’omicidio che non è solo quello fisico, il perdono che vale più del culto, l’adulterio come tradimento al sogno di Dio e il giuramento come visione pagana di Dio e del fratello.
A chiudere il cerchio, oggi, due questioni delicate: la giustizia e l’uso della violenza.

Occhio per occhio
Il proverbio “occhio per occhio e dente per dente”, che a noi sembra barbaro e primitivo, in realtà era una forma di moderazione, di misura: la reazione doveva essere proporzionata al danno, all’offesa.
Se ci guardiamo attorno, già solo questo sano principio fisico aiuterebbe non poco l’umanità a orientarsi verso la giustizia: quante volte la reazione è sproporzionata, abnorme. E senza andare a cercare le grandi relazioni internazionali, pensiamo ai rapporti in famiglia, in ufficio, in auto: un piccolo gesto, una parola di troppo, scatena una reazione eccessiva, uno scatto d’ira.
Eppure Gesù propone al discepolo di osare di più, di andare oltre, di non opporsi al malvagio.
Intendiamoci: se un pazzo sta accoltellando mio figlio lo difendo ad ogni costo ed è bene che lo faccia.
Ma, in determinate occasioni, lo Spirito può infiammare i nostri cuori rendendoci capaci, come Cristo, di donare la vita. Certo, nel quotidiano non ci succede di rischiare la pelle (e meno male!), ma di dover scegliere se reagire ad una provocazione, sì.
E penso alle tante volte in cui mi sono trovato nella condizione di reagire in malo modo, di assecondare la stanchezza o l’irritazione e di prendermela con qualcuno e mi sono sentito la parola del vangelo salirmi dal cuore.
La storia, da Santo Stefano e Francesco, da Gandhi ai tanti testimoni dell’oggi, ci dice che la pace vissuta con profondità può scardinare le logiche violente del mondo.

Amore e preghiera
Era normale, al tempo di Gesù amare e perdonare, era previsto e predicato dai rabbini. Ma l’amore e il perdono erano ristretti al popolo di Israele. Il nemico andava odiato. Allora capiamo la follia della predicazione di Gesù, che sovverte l’ordine: amare chi ti ama non è opera meritoria, pregare per chi ti è nemico, augurargli la conversione, non la morte, significa imitare il Padre. E il Figlio, che sulla croce perdona i suoi assassini.
È normale trovare antipatico chi ci contrasta.
È evangelico scegliere di passare sopra alle antipatie per trovare ciò che unisce.
È normale difendere le proprie cose, il proprio territorio, la propria famiglia.
È evangelico scegliere il dialogo, il confronto, la conoscenza reciproca per farlo.
È normale che d’ogni tanto la parte oscura che c’è in noi emerga.
È evangelico lasciare che la parte luminosa sconfigga la parte peggiore di noi.
Se essere cristiani non cambia le nostre scelte, se non cambia la nostra vita, le nostre reazioni, significa che il Vangelo non ha davvero arato il nostro cuore.
Gesù è asciutto e diretto, chiede tanto perché dona tanto.
Non vuole che i suoi discepoli siano all’acqua di rose, bravi ragazzi insipidi e anonimi, ma uomini e donne capaci di dire chi è veramente Dio, di chi può essere davvero l’uomo.

Perfetti
E Matteo conclude: imitate il Padre, imitate Dio, siate perfetti come lui.
Non in uno sforzo impossibile, ma nell’accoglienza dell’opera di Dio in noi.
Ma la cosa che mi ha sempre incuriosito è il fatto che Luca, riprendendo questo testo, decide di apportare una correzione: siate misericordiosi, dice, come è misericordioso il Padre vostro.
Aveva paura, Luca, dei cristiani che pensano di essere migliori, che diventano professionisti della fede, neo-farisei, giusti ed ipocriti.
La perfezione di Dio consiste nella sua misericordia, nel guardare col cuore alla nostra miseria.
Imitiamo il Padre quando vediamo nel violento una scintilla di bontà da far crescere.
Imitiamo il Padre quando guardiamo al lato luminoso della realtà e delle persone. E di noi stessi.
Imitiamo il Padre quando è la compassione a prevalere.

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