Con oggi finiamo l’anno liturgico, vissuto in compagnia di Matteo, il pubblicano divenuto discepolo per il Regno, lo scriba che ha saputo tirar fuori dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove.
Lo concludiamo con semplicità, in attesa dello sposo, valorizzando (ancora e ancora) i nostri talenti.
Lo concludiamo con una festa anacronistica, dal titolo altisonante: “Gesù Cristo Re dell’Universo”. Buffo parlare di “re” in un’epoca piena di democrazia, in cui il valore della partecipazione è ormai acquisito da tutti, nonostante gli evidenti limiti delle nostre democrazie moderne.
Ancora più buffo è parlare di “Universo” quando la scienza ci parla di uno spazio infinito e incommensurabile. Ve l’immaginate il Nazareno, un ebreo marginale di cui neppure la storia ufficiale si ricorda, governare un pulviscolo nell’Universo, la terra, abitata da rissosi umani?
Tant’è: malgrado la dicitura forse un tantino obsoleta, la festa richiama un valore.
Gesù, per la Chiesa, è tutto. L’essenziale, lo sposo, il testimone del Padre. Lo proclamiamo Signore e Maestro e ancora vogliamo che sia lui a guidare la nostra vita, di Chiesa e di discepoli.
La Chiesa lo proclama re e Signore.

Regalità
Un re da burla, però.
Un re che prende possesso della capitale terrena del suo Regno, Gerusalemme, cavalcando non un destriero bianco, ma un somarello.
Un re che si mette a lavare i piedi dei suoi sudditi.
Un re da commedia, che smitizza e ridicolizza ogni (presunto) delirante potere umano, invitando i suoi discepoli a farsi servi gli uni degli altri.
Un re che, invece di dire ai suoi sudditi «Amatemi», li esorta: «Amatevi».
Un re che indica il Padre, invece di farsi celebrare.
Un re più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato, un re senza potere se non quello (devastante) dell’amore.
Ecco: questo è il nostro Dio, un Dio sconfitto.
Questo è il vostro re, discepoli del Nazareno.
Questo è il vostro modello, sudditi del Regno di Dio.

Allora
Il nostro è un Dio sconfitto per amore, un Dio che – inaspettato – manifesta la sua grandezza nell’amore e nel perdono. Dio – lui sì – si mette in gioco, si scopre, si svela, si consegna, si ostende. Dio non è nascosto, misterioso: è evidente, provocatoriamente evidente; appeso ad una croce, apparentemente sconfitto, gioca il tutto per tutto per piegare la durezza dell’uomo.
Gesù è venuto a dire Dio, a raccontarlo.
Lui, figlio del Padre ci dona e ci dice veramente chi è Dio.
E l’uomo replica. “No, grazie”.
Preferiamo un dio un po’ severo e scostante, sommo egoista bastante a se stesso, potente da convincere e da tenere buono, un dio che ci assomiglia, con cui si può ragionare e venire a patti.
Un Dio folle che muore d’amore è troppo esigente, troppo tutto.
L’idea pagana di dio che ci facciamo ci soddisfa maggiormente perché ci assomiglia di più, non ci costringe a conversione, ci chiede superstizione; non piega i nostri affetti, solo li solletica.
Siamo seri, amici: voi lo volete davvero un Dio così?

Dalla parte dei poveri
Matteo, con la scomoda pagina del giudizio finale, ci saluta e ci provoca.
Il Dio che egli ha seguito, lasciando tutto, trent’anni prima, colui che è divenuto suo re (non Cesare, che gli dava danaro e potere, ma gelo nel cuore) si identifica con gli sconfitti della storia, con gli sfigati di tutti i tempi, con noi poveri.
Il re si traveste nello straccione che mendica fuori dalla porta del palazzo, nell’escluso di sempre, nello straniero, nel povero pieno di soldi ma mendicante di umanità, nel solo e nel depresso, nel carcerato in attesa di giudizio (non specifica se innocente!), nell’inatteso.
Non voglio entrare nel merito, so da me che molti si fingono poveri, che molti vivono di espedienti, che non è facile aiutare chi è povero.
Vi parlo di cuore, non di politica, vi parlo di vedere nel fratello che mi sta sulle tasche, nell’antipatico dell’ufficio, addirittura nel pazzo kamikaze, una scintilla del sorriso di Dio.

Finale del film (leggetelo bene)
Quella di oggi è una pagina da imparare bene, visto che svela il trucco della salvezza, visto che i termini del contratto sono espliciti.
Alla fine dei tempi, davanti al Cristo in maestà che succederà?
Lo trovate scritto, leggete bene, e mettete da parte il taccuino su cui avete segnato puntigliosamente le ore di preghiera, le messe e le confessioni sopportate con cristiana rassegnazione e le eventuali giustificazioni da tirare fuori nel caso Dio fosse più esigente di quello che ci raccontavano.
Il Signore ci chiederà se lo avremo riconosciuto, nel povero, nel debole, nell’affamato, nel solo, nell’anziano abbandonato, nel parente scomodo. Sì: avete capito bene.
Il giudizio sarà tutto su ciò che avremo fatto. E sul cuore con cui lo avremo fatto.
La fede è concretezza, non parole, la preghiera contagia la vita, la cambia, non la anestetizza, la celebrazione continua nella città, non si esaurisce nel Tempio.
Allora, certo, la preghiera, l’eucarestia, la confessione, sono strumenti di comunione col Cristo e tra di noi per fare della nostra vita il luogo della fede.
Nel mio ufficio, alla mia facoltà, in casa a spadellare mi salverò. Se saprò portare la fede da dentro a fuori, da lontano a vicino, e riconoscere il volto del Cristo adorato nel volto del fratello che incontro ogni giorno, mi salverò.
La regalità di Cristo, oggi, si manifesta nei nostri gesti.
Cristo è Signore se sapremo sempre di più amare i fratelli, diventare trasparenza della misericordia, testimoni credibili della compassione.

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