La paralisi che può colpire la nostra vita viene guarita: siamo liberi, siamo figli, siamo discepoli. Non impeccabili (ma chi l’ha mai chiesto?) ma consapevoli che il peccato è male perché fa del male, e la parte oscura della realtà dimora in noi, l’essenziale è che non prenda la maggioranza nelle decisioni importanti della vita. Siamo liberi perché liberati, capaci di amare perché amati.
Di amore si parla oggi, cercatori di Dio, Gesù si presenta come lo sposo dell’umanità, come colui che è più di ogni affetto, più di ogni legame. E noi, suoi discepoli, possiamo convertire il nostro cuore per riuscire a dire la bellezza della nostra fede, che non è una lunga e mortificante quaresima, ma una continua esperienza pasquale.
Amanti
Osea e il Vangelo, oggi, ci parlano della fede come di un rapporto nuziale, della storia tra Dio e Israele, tra Dio e l’umanità come di un innamoramento (difficile). Dio è lo sposo, l’umanità la sposa: ci si incontra, ci si innamora, si vive insieme, fra alti e bassi. Israele, sposa troppe volte infedele, come la moglie del profeta Osea, fatica a lasciarsi amare, sostituisce al vero volto di Dio un volto meno esigente e più superficiale. (che sia, la storia di Osea, un percorso di consolazione per le coppie risposate?).
Dio insiste: Gesù si presenta come lo sposo dell’umanità, fedele, che dona gioia, che realizza il bene dell’altro. Al solito, il Vangelo è sconcertante: noi pensiamo a Dio e ci vengono in mente parole come “autorità”, “norma”, “mistero insondabile”; Gesù parla di Dio e usa le parole “amore”, “festa”, “matrimonio”. Gesù giunge a comandare ai discepoli di amare, che è esattamente la cosa più entusiasmante che vorremmo fare!
Se la nostra stanca cristianità vuole recuperare lo smalto della freschezza, dobbiamo avere il coraggio di tornare all’essenziale esperienza di chi ha conosciuto il Maestro e si è sentito amato, dell’avventura degli apostoli, abituati ad una vita rude e faticosa, che scoprono nel volto del Rabbì un infinito bene, un’ineguagliabile sorgente di amore.
Pietro e gli altri si sono davvero sentiti amati: nella loro crescita, nei loro fallimenti, nei loro entusiasmi hanno fatto soprattutto esperienza del bene profondo e inatteso di Dio.
L’incontro con Dio, dice la Parola, è un incontro nuziale, un patto d’amore.
Se così è la fede, dobbiamo accantonare tutto ciò che sa di abitudine, di dovere, di regola, interrogarci sul nostro modo di annunciare il vangelo e di proporlo. Se Dio è amore e l’uomo cerca amore, perché così tante persone hanno una pessima idea di Dio?
Pur nella fatica del vivere, dobbiamo lasciar emergere di più e meglio che, in fondo, siamo discepoli perché ci siamo sentiti amati.
Anche l’amore può scivolare nell’abitudine e smarrire la freschezza e la novità del gesto di affetto e dello stupore, proprio come la nostra fede che diventa un rapporto stanco, fatto di abitudine e di noia. Ma nel matrimonio, come nella fede, questo è un pericolo da evitare, un rischio da affrontare: l’amore va coltivato, la seduzione prolungata, lo stupore ravvivato… Nella fede, però, c’è un vantaggio: almeno uno dei due si butta per primo, si lancia, propone, scuote, fa festa.
E’ Dio, ovviamente.
E’ lui che Israele propone come fedele, inguaribile ottimista, splendido sposo.
Vino nuovo in otri nuovi!
Una delle ragioni della fatica di credere del nostro mondo contemporaneo è proprio la pesantezza del messaggio che proponiamo: il Dio di Gesù raggiunge il cuore delle persone con volto severo e noioso, incomprensibile e indifferente. Le nostre pastorali, fatte di molta emergenza e di molta stanchezza, devono riappropriarsi della teologia della bellezza, della proposta straordinaria del vero volto di Dio. Continuare a fotocopiare una prassi pastorale che non osi proporre novità, rischia di spaccare le botti. Gesù è lo stesso ieri, oggi e sempre. Ma il nostro modo di annunciarlo, le nostre celebrazioni, la nostra preghiera devono diventare “nuove”, osare, cantare la bellezza, mettere al centro il fatto di essere amate. E’ chiaro a tutti che Dio ha a che fare con l’amore? Non un amore generico, ma l’amore che posso sperimentare quando mi innamoro, quando divento madre?
Noi, amici dello sposo
Paolo si difende da quelli che mettono in dubbio la sua autorità: non ha nessuna “lettera” di presentazione. Paolo dice ai Corinti che sono loro la “lettera”. La comunità cristiana può diventare “lettera” di Dio all’umanità, raccomandazione di Dio all’uomo che cerca la verità. Paolo si arrabbia con i fanatici del legalismo e delle norme e propone come Gesù un criterio più profondo di verità. Che la nostra comunità, piccolo resto di Israele, desideroso di vivere alla luce del Vangelo, diventi nei gesti concreti questa “lettera” di presentazione di Dio agli uomini.
Ciò che oggi ci viene chiesto, è una conversione profonda, un cambio di mentalità, non un taccone per far vedere che siamo cristiani. Vino nuovo in otri nuovi: il vino della gioia, della festa, della bellezza di Dio, della sua armonia e della sua pace negli otri di una comunità che desidera restare fedele al proprio amato sposo!