Una non festa conclude il nostro anno liturgico, una festa all’apparenza solenne, che parla di re, che parla di trionfi, che rispolvera – forse – antichi fasti di una chiesa militante in perenne scontro col potere mondano, potere talora segretamente desiderato, talora contrastato.
Una festa che richiama un’improbabile sovranità di Cristo, un “happy end” di cui abbiamo fortemente bisogno per guardare all’anno appena trascorso e rilanciare l’anno che sta per iniziare. Ma a leggere il vangelo si resta spiazzati, al solito.
Due poteri sono a confronto: quello di Roma imperiale e del suo rappresentante, il procuratore Ponzio Pilato e quello meschino del falegname di Nazareth che si è preso per Dio.
 
Poteri
L’immenso Giovanni nel capolavoro del dialogo fra Gesù e Pilato mette in scena una vera e propria rappresentazione teatrale: Pilato si crede forte, pensa di avere tra le mani questo fantoccio, disprezza lui e tutti gli ebrei che lo costringono ad usare il pugno di ferro e che, ci narra la storia, diverranno la pietra d’inciampo nella sua carriera verso il Senato.
Si diverte, Pilato, a prendere in giro questo misero falegname che ha perso anche l’appoggio dei suoi superiori religiosi. Scherza, irride, gli propone un dialogo all’apparenza giusto, finge giustizia ed equità.
Il potere spesso diventa farsa e burla, difende solo se stesso e si contrappone a chi lo ostacola.
Il Sinedrio vorrebbe uccidere Gesù e non può: deve chiedere permesso all’odiatissimo Pilato.
Pilato vuole salvare Gesù per umiliare il Sinedrio ma non può.
Entrambi faranno ciò che non vogliono. Il compromesso, la paura, il calcolo li fanno diventare burattini delle loro ambizioni
Pilato, durante tutto il colloquio, pone solo domande. Non si interroga: interroga.
E non ascolta le risposte.
 
Tu lo dici
“Sei re?” – “Tu lo dici” risponde Gesù a Pilato.
“Sei il Figlio di Dio Altissimo?” – “Tu lo dici” risponde altrove Gesù al Sommo Sacerdote.
“Tu lo dici”: siamo liberi di credere o no, Dio non si impone, mai.
Anzi, l’apparenza inganna: questo uomo sconfitto non assomiglia in alcun modo ad un re, men che meno ad un Dio. Sarà sempre così: il nostro Dio si nasconde, ci lascia liberi, smuove le nostre coscienze, chiede a noi di schierarci, ci costringe alla scelta.
Il potere che Gesù viene ad esercitare è il potere a servizio della verità. Che non nutre se stesso, che non si autocelebra, che fugge la gloria e l’apparenza.
 
Domande birichine
Che razza di re ci è capitato, amici, un re da burla che entra a Gerusalemme cavalcando un asinello e non un cavallo bianco, un re oltraggiato e preso in giro da annoiati soldati romani, un re che suscita la compassione e il disprezzo dell’irrequieto governatore Pilato. Che razza di re, senza armate, senza potere, senza rabbia, senza delirio di onnipotenza. E subito il nostro entusiasmo si smorza, subito i nostri segreti sogni di una eclatante vittoria del bene sul male si ridimensionano. No, non andrà così, non va così né ora né mai. Dio ha scelto di stare dalla parte degli sconfitti, dei dimenticati, re – certo – ma dei perdenti e re senza riscatto, re senza trionfi, re senza improbabili finali da commedia americana.
Un re nudo, appeso ad una croce, crudele trono, cinto da una corona di spine, un re talmente sconvolto da avere necessità di un cartello che lo identifichi, che lo renda riconoscibile almeno alle persone che l’hanno amato.
Questa è la non festa che celebriamo, che abbandona i trionfalismi per lasciare spazio alla meditazione, allo stupore. Questo è il vostro re, discepoli del Nazareno.
Lo volete davvero un Dio così? Un Dio che rischia, un Dio che – per amore – accetta di farsi spazzare via dall’odio e dalla violenza? Lo volete davvero un Dio che rischia tutto, anche di essere per sempre dimenticato, pur di mostrare il suo volto? Un Dio che accetta di restare nudo, cioè leggibile, incontrabile, osteso, palese, evidente perché ogni uomo la smetta di costruirsi improbabili devozioni, scure visioni di Dio? Questo è il nostro Dio, un Dio amante, un Dio ferito, un Dio che fa dell’amore l’unica misura, l’ultima ragione, la sola speranza.
 
Discepoli del non re
Se discepoli di questo Dio, facciamo bene a guardare spesso a quella croce segno universale d’amore, non partigiano e settario segno di appartenenza religiosa, ma misura dell’amore, modello del dono. Se discepoli di questo re, non potremo sopportare nei nostri atteggiamenti ombre di dominio, stonature, fratture nei nostri rapporti.
Se discepoli il potere, nella chiesa, tra noi, con i fratelli uomini, sarà sempre e solo servizio e l’ultimo giudizio, nella morale, nella prassi del nostro essere cristiani, sarà sempre e solo l’amore. Se discepoli sappiamo che la Storia finirà bene, finirà in luce, finirà nelle braccia del Maestro e questa Storia la vogliamo leggere e costruire nelle pieghe delle nostre piccole infinite storie, la vogliamo prendere come metro di giudizio delle cose e delle persone. Se discepoli abbiamo fiducia perché abbiamo sperimentato sulla nostra pelle la misura colma del suo amore devastante e rigenerante, fecondo e pieno di luce. Se discepoli siamo chiamati a costruire succursali del Regno, luoghi in cui la diversità è ricchezza e l’amore l’unica legge. L’amore l’unica legge, amici. Senza ingenuità, senza sconti, senza paure, l’amore diventa la misura del nostro essere, metro delle nostre scelte pastorali, scelte del nostro irrequieto vivere.
Chiuso l’anno, grazie fratello Marco, discepolo di Pietro, per le belle cose che ci hai fatto vivere, per il volto semplice e immediato di Gesù sperimentato dal rude pescatore di Cafarnao.
Da domenica prossima incontreremo Luca, lo scriba della mansuetudine di Cristo.

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