Simone il pescatore di Cafarnao ha appena professato che Gesù di Nazareth è il Messia. Affermazione sconcertante: Gesù non rispecchia in nessun modo le attese del popolo riguardanti un Messia muscoloso, intenzionato a sconfiggere anche con la violenza l’ingerenza romana. Gesù, in contraccambio, svela a Simone di essere una pietra, di essere talmente forte interiormente da potere sostenere la ricerca degli altri fratelli.
Finale felice, quindi: primo piano sullo sguardo commosso di Pietro, l’inquadratura che si allarga sui dodici in controluce nella notte, debolmente illuminata dal fuoco, musica struggente, titoli di coda.
Sarebbe stato così bello tagliare qui la scena, con questa reciproca cortesia, con questo reciproco dono; Pietro viene presentato come modello del discepolo e tutti noi, credo, avremmo chiuso il vangelo con un sorriso.
Ma c’è una seconda parte del vangelo di domenica scorsa: quella meno poetica e piuttosto sconcertante di oggi.
Amare fino a morire
Gesù, ora, parla apertamente ai suoi discepoli del rischio che sta correndo e del fatto che la sua missione potrebbe portarlo al dono totale, alla consumazione, alla morte. Afferma che il suo non è un messianismo spettacolare, eclatante, stupefacente. Anzi: Gesù afferma di essere disposto a morire piuttosto che rinnegare il volto di Dio che egli è venuto a raccontare. Di più: amare come egli sta facendo richiede una buona dose di sopportazione alla sofferenza.
Il sorriso dei Dodici si spegne, si respira imbarazzo, tutti si guardano sconcertati. `Sofferenza?`, `Morte?`, ma di cosa sta parlando il Rabbì?
Pietro interviene (Che diamine, non è appena stato nominato Papa?), prende da parte Gesù: meglio non fare questo discorso, scoraggia il morale delle truppe, Dio ti preservi dalla sofferenza Rabbì.
Convertiti, satana
Il primo discorso da Papa di Pietro resterà nella storia! Pietro vuole insegnare a Dio come deve salvare il mondo. Abitudine molto diffusa tra noi umani: saperne più di Dio, credere di essere capaci, in fondo, a dirigere l’azienda meglio di Lui. Insegnare a Dio, insomma, come fare per creare un mondo meno ingiusto, meno dolorante eccetera.
La reazione di Gesù verso Pietro è durissima: tu ragioni come il mondo, non sei ancora discepolo, il tuo parlare è demoniaco. Anzi, per la precisione, l’ammonimento di Gesù a Pietro è `passa dietro di me, Satana`, cioè segui i miei passi, la mia logica, converti il tuo pensiero demoniaco.
Gesù ama Pietro, lo ha appena investito di un compito fondamentale. Eppure lo richiama, lo rimprovera duramente, perché amare significa, talvolta, tirare fuori le unghie, come in questo caso.
Pietro, primo Papa, fa la prima di una lunga serie di stupidaggini: dovrà percorrere ancora molta strada, abbandonare il discepolato per essere, davvero, una `roccia`.
Invito gli ipercritici nei confronti della Chiesa a riflettere su questa inaudita libertà di Gesù che non sceglie il responsabile dei discepoli tra i migliori, ma tra i più autentici.
Noi, come Pietro
Sì Pietro proprio ci assomiglia, e tanto.
Molti, tra noi, hanno un pensiero nascosto, una strana invidia nei confronti di Dio.
Dio è amore, è grande, è splendido, incommensurabile, onnipotente e tutti gli `onni` che mi vengono in mente. La mia vita, invece, è faticosa, la cosa che più temo è la sofferenza, quindi Dio è alieno alla sofferenza (beato lui!) spero mi preservi dal dolore. Dio è il perfetto bastante a se stesso, l’imperturbabile, il sommo egoista, beato lui. Diventando suo discepolo, spero che mi appiani, almeno un poco, la strada…
Discorso che fila via abbastanza liscio, se non per un piccolo particolare: Dio non la pensa così! Gesù ci ha svelato il volto di un Dio amante, appassionato degli uomini, fuoco bruciante (ne sa qualcosa Geremia: per lui l’incontro con Dio è gioia e tormento, la sua vita è radicalmente cambiata).
E chi ama lascia libero, chi ama soffre della mancanza d’amore dell’altro.
Gesù soffre per la dura reazione dell’umanità verso di lui, verso l’inattesa reazione del suo popolo al suo messaggio.
Gesù intravede un ultimo gesto totale, un’ultima possibilità: le parole non sono bastate, né i segni prodigiosi, né la tenerezza, forse occorre consegnarsi, compiere il gesto paradossale della morte in croce.
E Pietro obbietta: no, non questo, non ci piace un Dio che soffre, non vogliamo un Dio che non sia trionfante e glorioso. Ma come, lui può evitare la sofferenza e invece l’abbraccia?
Povero Pietro, poveri noi, quando capiremo la terribile semplicità dell’amore di Dio? Quando passeremo dall’idea che la sofferenza è male all’idea che a volte la vita è dono e donare chiede sofferenza?
Dio non ama la sofferenza, sia chiaro.
Ma – talora – compiamo gesti che comportano una rinuncia, una morte, e la sofferenza diventa allora misura dell’amore. Così il dolore del parto necessario a dare luce ad un bimbo, il corpo affaticato che arrampica la vetta, la notte insonne della madre che allatta il neonato.
Pietro, cambia idea, guarda l’amore, non il dolore, resta stupito dalla serietà dell’amore di Dio che non resta sulla barca solo quando tutto va bene, ma che è disposto a mettersi in gioco, a donare tutto!
Ecco: il discepolo, come il Maestro, è chiamato ad amare fino al perdersi. Prendere la croce e rinnegare se stessi non diventa un autolesionismo misticheggiante (come spesso è stato proposto!), ma una proposta di vita che contraddice la logica mondana dell’autorealizzarsi.
Troppo spesso il nostro mondo propone una sorta di idolatria del sé (fragile e ingenua). Gesù propone di più: realizzi te stesso se la tua vita diventa dono, apertura, accoglienza, il paradosso del ritrovarsi `perdendosi` per gli altri.