In obbedienza. E’ l’unica seria ragione che mi viene in mente per celebrare l’Eucarestia ogni domenica. Un’obbedienza seria, adulta, piena, affettuosa. Obbedisco a ciò che un amico immenso mi chiede, mi fido, lo faccio, ci sono.
Quel `Fate questo in memoria di me` detto da Gesù nella tragica fine della sua storia, quella cena Pasquale riempita di un nuovo significato, non più celebrazione della fuga dall’Egitto, ma dono totale di Dio all’umanità, è una richiesta che Gesù fa ai suoi ignari apostoli, e con loro a noi.
`Rifatelo`, dice il Signore. E noi lo rifacciamo, quel gesto, con stupore e rispetto, con passione e costanza, da duemila anni, per rendere presente il Signore.
Non nella rispettosa memoria storica, non nell’emotività, non nella stanchezza dell’abitudine, non nel rischio di una ritualità vuota e ridondante, ma nella fede della sua presenza reale nei poveri segni del pane e del vino.
Oggi celebriamo la memoria del dono dell’Eucarestia, il modo fragile e sconcertante che Dio ha di donarsi ai suoi discepoli.
Eucarestie
Già: il fatto di trovarci ogni domenica e di ripetere quei gesti e quelle parole affonda le sue radici nella cena – l’ultima – che il Signore volle fare, disperato tentativo finale di richiamare i suoi apostoli, fragili e scostanti, al dramma che si stava per consumare.
Gesù volle usare il pane e il vino, la sostanza e la gratuità, l’essenziale e il superfluo della vita, il lavoro e la festa per farlo diventare la presenza della totalità di Dio.
Gesù è davvero presente quando la sua comunità si raduna, ne ascolta le parole e ne ripete il sacrificio.
Che ci crediamo o no, che ce ne accorgiamo o no, nella povertà immensa delle nostre annoiate celebrazioni domenicali, Dio si rende presente. Tutto lì.
Se è vero (se) che Dio si rende presente nel pane e nel vino (Non mi va di contestare questa scelta, sono affari suoi se ha scelto questo modo inusuale…), non capisco alcune cose, scusate.
Non capisco come si fa a dire: `Sono credente non praticante`, come se dicessi: `Sono innamorato non praticante`. Non capisco chi dice `Meglio non andare a Messa e comportarsi bene che andarci e comportarsi male`, visto che è possibile anche andare a Messa e comportarsi bene! Non capisco chi ha ridotto la Messa a dovere da assolvere da segnare sul taccuino dei sacrifici fatti e presentarlo a san Pietro il giorno della nostra morte (Può accadere che l’amore si riduca a dovere, ma che tristezza di fede!). Non capisco chi pensa di essere discepolo e mette l’incontro con la comunità (sempre che esista una comunità!) all’ultimo posto, dopo le tante cose fondamentali da vivere di domenica. Non capisco chi cerca con passione Dio e snobba il luogo dell’incontro. Non capisco la ragione per cui noi preti usiamo la Messa per sfogare il nostro pensiero (spesso rabbiosamente), invece di metterci noi per primi in ascolto e divenire servi dell’unica Parola che salva. Non capisco che razza di follia pura sia questa se Dio, tanto per cambiare, rischia di farsi manipolare ogni domenica.
Non capisco ma vivo, non capisco ma cerco di accorgermi, non capisco ma cerco di avere fede.
Cosa manca alle nostre Messe?
Forse ciò che abbiamo perso nelle nostre Messe non è il fascino della ritualità del latino o la solennità delle funzioni, forse non abbiamo perso l’equilibrio e l’armonia del celebrare, forse non abbiamo perso solo la bellezza delle funzioni, forse non dobbiamo solo ripensare il ruolo del celebrante e l’eccessiva enfasi data all’omelia, forse quello che manca è proprio solo la fede.
Non ci sono santi: se credo che davvero Dio è presente, non riesco a mancare neanche sforzandomi…
Un rischio calcolato
No, Dio non si scandalizza. Già durante l’ultima Cena era successo. Luca osa raccontare di quel litigio durante la Cena, il momento stesso in cui il Signore si donava e cercava conforto, i suoi ignari e sprovveduti apostoli ancora parlavano di potere. Non è cambiato molto: il Signore rischia e sa di rischiare, ma non demorde. Innamorato e fedele (lui, almeno!) dell’umanità, si affida alle nostre fragili mani, alle nostre balbettanti parole per essere presente in mezzo a coloro che lo seguono.
E’ finito (grazie a Dio!) il tempo della presenza per non sfigurare davanti al prete.
Partecipare all’Eucarestia, significa mettersi in gioco, in un atteggiamento di accoglienza e di fede.
In quest’anno eucaristico abbiamo un compito: fare in modo che la Messa parli di Dio! Nell’attenzione ai gesti, all’ambiente, alle parole, ai canti, ai segni, nel silenzio, nel desiderio della preghiera … tutto dovrebbe parlare di Dio.
Per noi preti (mi ci metto in mezzo, non ho una gran vocazione a fare il grillo parlante!) il Corpus Domini ci richiama all’esigenza di lasciarci cambiare dalla Parola, per renderla comprensibile, piacevole. Parlare di Cristo prima delle esigenze morali, raccontare, noi che abbiamo avuto la gioia di seguirlo, del suo fascino e della sua pienezza, senza rifugiarci dietro astratti concetti teologici. Abbiamo bisogno di riscoprire la freschezza e la gioia del ritrovarsi a celebrare la misericordia di Dio, a riempire la nostra bisaccia così che nessuno esca a mani vuote dalle nostre liturgie.
Quel gesto di Gesù che – in obbedienza al Rabbì e al suo `Fate questo in memoria di me` – riproponiamo ogni domenica, è uno squarcio aperto nel petto di Dio, la possibilità di accostarci con verità e misura alla grande tenerezza del Signore.