-
In quel tempo. Il Signore Gesù riprese a parlare loro con parabole e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: “Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
Chiamati alla festa
La festa nuziale, di questi tempi, non attira molta simpatia.
Spesso abbiamo ridotto questo evento, splendido, la decisione di due innamorati di consegnarsi all’Amore, a ripetizione di un cliché molto più simile ad un set cinematografico che ad una vera festa. Capisco che, in questo giudizio, prevale la mia indole orsifera, ma l’esperienza mi ha terribilmente segnato e sono più i matrimoni finto/forzatamente allegri a cui ho partecipato di quelli autenticamente gioiosi. Forse per una semplice incomprensione di base: la festa non è misurabile dal numero di portare al pranzo o dall’ostentazione del lusso, ma dal cuore e dalla disposizione interiore dei presenti.
Mettetevi nei panni di un ebreo vissuto duemila anni fa: si mangiava forse una volta al giorno e il matrimonio era l’occasione di una vita per uscire da una quotidianità molto dura. Il rito del matrimonio prevedeva una settimana di festeggiamenti e un pasto regale. Banchetto nuziale, allora, richiamava una festa straordinaria e riuscita, la massima espressione della gioia terrena.
Ecco, dice Gesù, incontrare Dio è la più bella festa cui una persona possa partecipare.
Noia mortale
Una bella festa nuziale riuscita, ecco cos’è l’incontro con Dio.
Non un dovere noioso.
Non un obbligo.
Non una penitenza per meritarci il Paradiso che, per giunta, è pure gratuito.
Non un legame parentale di cui vorrei tanto fare a meno.
Una splendida festa.
Porca di quella miseria. Ma come abbiamo ridotto la fede, noi cristiani?
Basterebbe questo per meditare, oggi. Chiederci se la nostra esperienza di fede sia più simile ad una festa o ad un funerale. Per ripartire nella straordinaria esperienza di discepolato.
No, grazie
La parabola raccolta da Matteo mischia diversi piani, salta subito agli occhi, inserzioni derivanti, probabilmente, da altri detti di Gesù. La prima parte racconta del rifiuto degli invitati, troppo occupati dalle cose di questo mondo per pensare seriamente a Dio. Matteo, probabilmente, si riferisce alla parte di Israele che non accetta l’invito (il tema del rapporto fra Dio e Israele come patto nuziale è molto presente nella Bibbia) ma possiamo benissimo attualizzarla: anche noi corriamo il rischio di essere troppo indaffarati per gioire. I luoghi comuni, durissimi a morire e fomentati dai cattolici troppo devoti!, continuano a relegare la fede nelle attività doverose ma noiose, da fare il meno possibile.
Cosa abbiamo di meglio da fare, oggi, del lasciarci amare da Dio?
Abiti strappati
L’inserzione finale di Matteo, derivata da un altro detto di Gesù, sull’invitato cacciato perché vestito in maniera inadeguata, cosa del tutto improbabile avendo appena raccolto gli invitati fra i mendicanti!, pare essere, invece, rivolta a noi discepoli, che ci siamo trovati seduti al tavolo senza averne diritto, figli acquisiti dopo il diniego di Israele.
Anche noi corriamo il rischio di gettare la nostra vita interiore dalla finestra, di non indossare la veste bianca che, pure, ci contraddistingue come discepoli.
Non commettiamo questo errore madornale. Non rifiutiamo la felicità.
Il Signore ci chiede di non sederci sulla nostra fede, di non pensare di avere acquisito delle posizioni di privilegio, ma di avere sempre un cuore da mendicanti, pieno di stupore. Per accorgerci, insieme alla comunità, di avere il privilegio di essere ospiti di Dio.
Paolo Curtaz