Terza domenica di Pasqua

At 5,27-32.40-41/Ap 5,11-14/ Gv 21,1-19

Gita al lago

A volte mi sento come Pietro. 

Gesù è risorto, certo. Lo sa. È corso al sepolcro, ha avuto anche una sua apparizione privata che Luca menziona ma di cui nessuno parla (non è andata granché bene, penso).

Tutto bello, tutto vero. Ma non fa per lui. 

Lui è altrove, travolto dalla sua colpa, smarrito come un bambino che si è perso. Deluso di sé e della sua parentesi mistica. Caduto pesantemente in terra dopo avere volato in alto.

Come ci sentiamo, spesso, in questo mondo di certezze che implodono, di violenza crescente, di maschi alpha pieni di testosterone che fanno i bulletti a spese dei popoli.

Gesù è risorto, evviva. E abbiamo anche celebrato la Pasqua con le chiese (quasi) piene. E siamo corsi a vedere qualche città d’arte, malgrado il maltempo, per stordirci il giusto. E tavole ancora imbandite finché si riesce. Tutto vero e bello.

Ma dentro serpeggia un malessere infinito.

Come di chi si arrende alla vita.

Gesù è risorto e glorioso, vivo, ma lui, Pietro, è rimasto in quel cortile. A quel tradimento. Alla sua figuraccia. Ha toccato con mano quanto è distante dalle fede, altro che roccia.

Pietro crede, certo. Ma la sua fede non riesce a superare il suo fallimento.

È Pasqua, evviva. Ma la mia vita resta sepolta dai miei sbagli o dalla fortuna o dalla paura, dalle paure. Da un lutto o da un dolore, da una malattia o da mille ombre.

È festa per gli altri, non per me. […]

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