Seconda domenica di Pasqua

At 5,12-16/Ap 1,9-11.12-13.17-19/ Gv 20,19-31

Il tuo segno

Abbiamo abbandonato in fretta il sepolcro, smettendo di cercare fra i morti uno che è vivo.

O, almeno, così dovrebbe essere.

Così vorrei che fosse. Per me. Per voi. Per le nostre comunità così tanto devote al crocefisso e così poco disposte ad incontrare il risorto.

Così vorrei in questo tempo in cui prevale la tenebra e lo sconforto. E la paura.

Perché sì, avete ragione, non è facile convertirsi alla gioia. Abbandonare il dolore. Non amarlo.

Credere, fidarsi, poter dire anche noi, che i discepoli gioirono nel vedere il Signore.

Questa gioia cristiana che è una tristezza superata richiede una conversione ancora più radicale del pur impegnativo cammino di quaresima, giusto.

Non fare le vittime, non sentirci al centro di una congiura, smettere di elemosinare giudizi positivi dagli altri, pensare che il mondo (e Dio) ce l’abbia con noi, cercare in tutti i modi di evitare le sofferenze che, inevitabilmente e necessariamente la vita ci pone davanti per crescere.

Tutti pronti a credere in Dio, certo purché ci garantisca una vita senza dolore. 

O senza troppo dolore. Molti pronti a farlo salire sul banco degli imputati: perché Dio non ferma le guerre, dopo che siamo stati noi o la nostra indifferenza o la nostra ignavia a provocarle.

C’è tanto cammino da fare.

Il Golgota e il sepolcro sono distanti pochi metri. Ma che diventano un abisso invalicabile se non la smettiamo di piangere su noi stessi, come la Maddalena, di lamentarci, come fanno i discepoli di Emmaus. 

Il tempo pasquale è un percorso dalla disperazione alla gioia.

Dalla paura alla fiducia. Dalla guerra alla pace del cuore.

Gesù è risorto, certo. Ora sta a noi resuscitare.

Hanno faticato i discepoli e le discepole.

Hanno faticato gli apostoli. 

Ha faticato Tommaso. […]

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