1. In quel tempo. Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
    Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
    «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
    vada in pace, secondo la tua parola,
    perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
    preparata da te davanti a tutti i popoli:
    luce per rivelarti alle genti
    e gloria del tuo popolo, Israele».
    Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui.

Famigliari di Dio

Natale ha messo in luce le nostre emozioni e le nostre gioie più profonde, ma anche le nostre solitudini e le nostre paure.

Travolti dal clima natalizio che raramente ci conduce al vero significato dell’evento, accontentandosi di solleticare ricordi infantili e facendo leva su facili stereotipi, abbiamo combattuto, e tanto, per ritagliarci un piccolo spazio e andare con la mente fino a Betlemme a contemplare un Dio che nasce.

Un bambino che, da subito, diventa immenso segno di contraddizione, come dice lo stanco Simeone prendendolo in braccio, luce che non viene accolta, come spesso accade ancora oggi.

Le nostre città sono piene di luminarie che, alla fine, finiscono col sovrastare l’unica flebile luce che dovremmo seguire.

Quella luce che ci conduce a Betlemme.

Per molti Natale, dicevo, è un momento di enorme sofferenza perché non sperimentano quel clima gioioso, famigliare, sereno che ci trasmettono le pubblicità di questo periodo. Natale è diventata una festa che sembra esasperare il dolore di chi lo passa da solo o in cattiva compagnia, o segnato da una sofferenza e da un lutto.

Orribili Natali abitano il cuore di molte persone perché il bambino che è in loro, sognante e ingenuo, non trova quell’abbraccio di affetto sincero cui tutti aneliamo.

Urge una cura, una consolazione, un abbraccio spirituale.

Entrando a far parte della famiglia di Dio, quella che non delude mai.

Inghippi

Ci vuole una buona dose di follia, ma mi ci sto abituando, perché la Chiesa proponga in questa domenica la festa della Santa famiglia, indicandoci come modello da seguire la famiglia di Nazareth, una famiglia decisamente atipica!

Ancora intontiti dai troppi dolci ingurgitati, guardiamo con sufficienza critica questa non-famiglia composta da una padre che non è il vero padre, di una madre vergine e di un bambino che è il figlio di Dio!

E invece, se abbiamo il coraggio di lasciar parlare gli eventi, qualcosa si smuove.

Perché, come ci dice Luca nel Vangelo che abbiamo appena proclamato, questa è una famiglia concreta, reale, che deve fare i conti con la fatica e la sofferenza, con gli imprevisti e i momenti di stanchezza delle relazioni.

Non è una coppia di semidei. Non ci sono gli angeli a stirare e a fare bucato.

Né le potenze del cielo che suggeriscono a Giuseppe le scelte da fare.

Questa famiglia è esemplare proprio nella sua vicinanza alle nostre fatiche e stanchezze, alle nostre crisi e ai nostri litigi. Affrontati avendo Dio che corre in soggiorno…

Giuseppe

Guardate a Giuseppe, ad esempio.

Giuseppe è il giusto per eccellenza, scrive Matteo nel suo racconto. Non è una caratteristica etica, ma indica colui che vive osservando le prescrizioni della Legge. Da questo punto di vista, al di là del suo dramma personale, Giuseppe vive una lacerazione interiore: deve denunciare Maria ma vuole salvarla a tutti i costi. Non mette il suo orgoglio ferito di maschio al centro ma l’amore verso la sua sposa. Questo gesto così umano lo porta a trasgredire la Legge! È giusto perché forza la Torah. Ci sono delle eccezioni che Dio accoglie. Mettendo l’amore e la rettitudine prima della norma salva Maria… e se stesso. Darà alla luce la salvezza (questo il significato del nome di Gesù) perché Dio salva solo attraverso i nostri gesti di accoglienza.

Giuseppe accoglie la realtà della situazione. La sua vita è rovinata, cambiata, stravolta. Potrebbe prendersela con Dio, non ci dorme la notte (affatto sdolcinato e remissivo!) come Maria (bella coppia) chiede ragione della sua battaglia e l’ottiene. E pronuncia il suo “sì” alla realtà. Non passivamente, non remissivamente: accoglie il reale, lo assume, lo cavalca. Prende con sé Maria e, quindi, Gesù. Non dobbiamo temere di prendere Gesù con noi, ci porta la salvezza.

Il “sì” di Giuseppe porta salvezza agli altri, senza saperlo. Non abbiamo conservato nemmeno una parola di Giuseppe, solo il suo gesto.

L’angelo gli dice che darà il nome Gesù a suo figlio. Maria partorisce, Giuseppe dona il nome, cioè l’identità! Una splendida avventura di coppia, sono davvero famiglia.

Ogni padre è chiamato a dare il nome, cioè l’identità al proprio figlio, ad insegnargli la salvezza.

Maria

Guardate Maria, ad esempio.

È un ritornello che Luca ripete per due volte nel vangelo dell’infanzia (2,51).

Descrive con garbo la reazione di Maria, ciò che fa in mezzo al turbinio che sta avvolgendo la sua piccola vita.

Maria conserva ciò che sta accadendo.

Lo vive con intensità, si lascia coinvolgere con l’intelligenza del cuore, lo tiene a mente. Certo, sono eventi straordinari: l’annuncio, il viaggio, il parto, la visita dei pastori…

Ma la qualità del vissuto di Maria, sembra insinuare Luca, è tutta particolare.

Non subisce gli eventi, né li affronta superficialmente, non se ne lascia travolgere.

Li conserva, li accoglie, ne fa tesoro, se ne appropria, cerca di rintracciare un senso in tutto ciò che avviene.

Fa l’esatto contrario di ciò che il nostro mondo ci obbliga a fare.

Travolti dagli impegni, accecati da continui stimoli, storditi dalle emozioni, siamo diventati incapaci di conservare.

Esiste una potente memoria, inattaccabile da virus e che non necessita aggiornamenti: la memoria del cuore, la custodia delle emozioni, gli affetti dell’anima.

Quel luogo interiore che siamo chiamati a scoprire e a nutrire, in cui conserviamo le scoperte più profonde, i valori sacri, le scoperte più sensibili e definitive.

Quella stanza intima, inaccessibile ai più, che conserva il nostro io più autentico e prezioso.

L’anima.

Da qui possiamo partire per ridefinire le nostre relazioni famigliari.

Per appartenere alla famiglia di Dio.

Paolo Curtaz