No, Pietro non si aspettava una tale reazione, e forse neppure noi.
Pietro ha appena riconosciuto nel Rabbì di Nazareth lo sguardo stesso di Dio e Gesù gli ha appena svelato di essere pietra, di avere un compito importante nella comunità; finale felice, quindi. Sarebbe stato così bello tagliare qui la scena, con questa reciproca cortesia, con questo reciproco dono; poiché Pietro viene presentato come modello del discepolo tutti noi, credo, avremmo chiuso il vangelo con un sorriso.
Ma c’è una seconda parte del vangelo di domenica scorsa, quella meno poetica e piuttosto sconcertante di oggi. Gesù, per la prima volta, parla apertamente ai suoi discepoli del rischio che sta correndo e del fatto che la sua missione potrebbe portarlo al dono totale, alla consumazione, alla morte. Momento di tensione tra i dodici, e Pietro interviene (che diamine, non è appena stato nominato Papa?), prende da parte Gesù: meglio non fare questo discorso, scoraggia il morale delle truppe, Dio ti preservi dalla sofferenza Rabbì. Catastrofe!Pietro, eri partito così bene! Perché vuoi insegnare a Dio come deve salvare il mondo? La reazione di Gesù è durissima: tu ragioni come il mondo, non sei ancora discepolo, il tuo parlare è demoniaco. Anzi, per la precisione, l’ammonimento di Gesù a Pietro è "passa dietro di me", cioè segui i miei passi, la mia logica. Sì Pietro proprio ci assomiglia, e tanto. Vediamo se riesco a sintetizzare la logica media del cristiano… Dio è amore, è grande, è splendido, la mia vita è faticosa, la cosa che più temo è la sofferenza, quindi Dio è alieno alla sofferenza (beato lui!) spero mi preservi dal dolore. Discorso che fila via abbastanza liscio, se non per un piccolo particolare: Dio non la pensa così! Gesù ci ha svelato il volto di un Dio amante, appassionato degli uomini, fuoco bruciante (ne sa qualcosa Geremia: per lui l’incontro con Dio è gioia e tormento, la sua vita è radicalmente cambiata).
E chi ama lascia libero, chi ama soffre della mancanza d’amore dell’altro. Gesù soffre per la dura reazione dell’umanità verso di lui, verso l’inattesa reazione del suo popolo al suo messaggio. Gesù intravvede un ultimo gesto totale, un’ultima possibilità: le parole non sono bastate, né i segni prodigiosi, né la tenerezza, forse occorre consegnarsi, compiere il gesto paradossale della morte in croce. E Pietro obbietta: no, non questo, non ci piace un Dio che soffre, non vogliamo un Dio che non sia trionfante e glorioso. Ma come, lui può evitare la sofferenza e invece l’abbraccia?
Povero Pietro, poveri noi, quando capiremo la terribile semplicità dell’amore di Dio? Quando passeremo dall’idea che la sofferenza è male all’idea che alle volte la vita è dono e donare chiede sofferenza? Dio non ama la sofferenza, sia chiaro. Ma – talora – compiamo gesti che comportano una rinuncia, una morte, e la sofferenza diventa allora misura dell’amore. Così il dolore del parto necessario a dare luce ad un bimbo, il corpo affaticato che arrampica la vetta, la notte insonne della madre che allatta il neonato. Pietro, cambia idea, guarda l’amore, non il dolore, resta stupito dalla serietà dell’amore di Dio che non resta sulla barca solo quando tutto va bene, ma che è disposto a mettersi in gioco, a donare tutto! Ecco: il discepolo, come il Maestro, è chiamato ad amare fino al perdersi. Prendere la croce e rinnegare se stessi non diventa un autolesionismo misticheggiante (come spesso è stato proposto!), ma una proposta di vita che contraddice la logica mondana dell’autorealizzarsi. Troppo spesso il nostro mondo propone una sorta di idolatria del sé (fragile e ingenua). Gesù propone di più: realizzi te stesso se la tua vita diventa dono, apertura, accoglienza, il paradosso del ritrovarsi "perdendosi" per gli altri.

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