Pietro scopre che il volto di Dio che Gesù racconta è un volto amorevole e misericordioso, ma di un amore terribilmente serio ed esigente: la sofferenza, in questa logica, non rappresenta uno sbaglio, un errore di percorso, una cosa da evitare a tutti i costi, ma può diventare il modo di esplicitare l’affetto. Gesù propone di donare la propria vita agli altri proprio perché lui ha fatto cosí.
Paolo oggi ci introduce ad un approfondimento di questo tema: i precetti che Israele ha ricevuto sono sintetizzabili tutti nel comandamento dell’amore verso il prossimo. Strana riflessione, quella dell’apostolo, noi viviamo invece l’amore come una contrapposizione al comando: associamo la parola "amore" a concetti come "passione", "creatività", "emozione", "follia" e – al contrario – la parola "precetto" a concetti come "dovere", "costrizione", "rigidità", "noia". Sarà vero? Certo siamo reduci da decenni di predicazione sul senso del dovere, sul confronto continuo con i vari modelli di buona madre, buon figlio eccetera e – da bravi adolescenti poco cresciuti – il nostro mondo contemporaneo si è ribellato a questa costrizione proponendo una sregolatezza assoluta, la propria sensazione ed emozione come criterio di giudizio su tutto. Salvo poi arenarci sulla sponda opposta a quella evitata: la frammentazione degli affetti, uno scontento che tenta di alimentare la gioia con l’ebbrezza e l’eccesso. La Scrittura, al solito, ci viene incontro con sano realismo, in equilibrio tra rigido moralismo e dissennata emotività. Gesù ci chiede di amare, il sogno più grande di ogni essere umano, conferma cioé la verità della nostra intuizione profonda: solo nell’amore realizziamo il nostro volto più autentico. Ma cos’è l’amore? Spontaneamente pensiamo alla splendida esperienza dell’innamoramento. Sappiamo però che essa è tappa necessaria ed entusiasmante di un percorso che continua e sfocia nell’assumere l’altra persona: ti amo nella tua interezza, ti prendo e mi offro nella quotidianità, voglio te come compagno di viaggio, te come dolce presenza alla ricerca della felicità. Così per l’amore verso i figli, arte difficile del rendere autonomo un cucciolo d’uomo o per l’amicizia, complicità festosa che si trasforma in legame indissolubile nella difficoltà. Lo so, sono molto ottimista, ma la sintesi del vangelo e straordinaria: ama col cuore e con la testa, rendi concreto il tuo affetto, mettiti in gioco oltre l’emozione, scegli, schierati, dona e donati.Ma fallo perché hai sentito amore dal tuo grande Dio, imitalo nel tuo gesto perché egli ti ha riempito il cuore…ama il prossimo come te stesso, prima trova equilibrio nell’amore verso te stesso, accogli le tue fragilità senza vergogna, mettile nelle mani di Dio con abbandono filiale…
Nella Chiesa i rapporti tra i discepoli sono vissuti in questa liberante logica dell’amore. Il vangelo ci illustra il modo di gestire i nascenti conflitti nella comunità primitiva: passato l’entusiasmo dell’adesione al Rabbì, allora come oggi sorgevano i problemi di dialogo e di comprensione col rischio di gesti estremi (magari in nome del vangelo!). La prassi proposta da Gesù è piena zeppa di buon senso: discrezione, umiltà, delicatezza verso chi sbaglia, lasciandogli il tempo di riflettere, poi l’intervento di qualche fratello, infine della comunità. Quanto siamo lontano da questa prassi evangelica! Se si parla degli errori di qualcuno se ne sparla, spesso con sadica soddisfazione, senza compassione o delicatezza. Se noi discepoli del Misericordioso non sappiamo avere misericordia, chi mai ne sarà capace? Ma tutto questo senza falsi buonismi: la franchezza evangelica è un modo concreto di amare, di essere solidali anche con durezza. Nelle nostre comunità abbiamo bisogno di scoprire questo modo concreto di intervenire, di prendere a cuore il destino dei miei fratelli, senza nasconderci dietro il sospetto rispetto che non mi interpella. Se davvero il Rabbì mi ha cambiato la vita, ha cambiato anche il modo d vedere gli altri. Proviamo?