Ce l’ho fatta, infine.
Tengo il portatile sulle ginocchia e alzo lo sguardo distratto e stordito.
Lo vedo, Gesù, che scende dalla collina in mezzo agli ulivi, attorniato dai suoi discepoli. Li vedo mentre parlano animatamente, scollinando da Betania, unirsi poi alle molte persone che arrivano alla città santa da questo lato, dal Cedron. La vista della città è stupenda, la più bella, quella che ha fatto gridare di gioia i pellegrini che arrivavano da questa parte risalendo il deserto di Giuda, dopo essersi lasciati alle spalle Gerico. Gerusalemme si dona, sposa sensuale e pudica, accarezza le colline che l’attorniano, assorbe e riflette la luce del sole con le sue pietre calde. Gesù sale su di un asinello che si inerpica deciso sul fianco della collina, sulla strada che costeggia le imponenti mura, per entrare nella città santa. La gente lo riconosce, alcuni bambini gli corrono innanzi, alcuni tagliano rami di palma e di ulivo, qualcuno grida “osanna”. Arriva il Messia, Gerusalemme, arriva il tuo re.
Arriva dal monte degli ulivi, perché di la sarebbe arrivata la salvezza, cavalcando un puledro d’asina, come profetizzato da Zaccaria.
Re da burla, potente che non si prende sul serio, Gesù entra nella città che uccide i profeti.
Me lo vedo, il Signore.
Respiro l’aria che mi riempie i polmoni di questa frizzante primavera.
Un muro alto otto metri, alle mie spalle, mi riporta alla cruda realtà di una terra che assomma in sé lo stupore e la fragilità dell’essere umano, qualche chilometro quadrato che fa di Gerusalemme il crogiuolo di tutto il meglio e di tutto il peggio dell’uomo, allora come oggi.
Vi scrivo da Gerusalemme, passerò la Pasqua nella terra che conobbe il sangue di Dio, infine.
Abitudini
Siamo talmente abituati alla morte di Dio, talmente riempiti di riflessioni e meditazioni, e stanche prediche sulla salvezza, da avere tutto chiaro, tutto colto, tutto imparato. Non ci serve null’altro. Al più qualche emozione resa possibile dalle nuove tecniche, dalla modernità e dai prodigi della tecnica, una cruenta passione come quella di Gibson, ma nulla di più.
E assistiamo ancora una volta al dono di Dio come se fosse una cosa dovuta, un evento banale, quasi abitudinario, presente ma debole, scontato ma inutile.
Peggio: ci fermiamo alla crosta, ascoltiamo e diciamo parole di cui non conosciamo veramente il significato.
Gesù è morto per noi. E nessuno sente il bisogno di salvezza.
Egli è morto per i nostri peccati. E noi stiamo attenti a sottolineare i peccati degli altri.
Ha donato se stesso. E non sappiamo che farcene di questo dono.
Avessimo il coraggio di tornare a quei giorni, di riviverli, di lasciarci interrogare e scuotere!
Avessimo il coraggio di osare perforare i Vangeli, di toglierli dalla patina di incenso che li avvolge per guardare negli occhi il Nazareno che ha deciso di donarsi fino in fondo.
Lo spettacolo è pronto, tutti i protagonisti sono la loro posto.
Ha inizio la morte di Dio.
La scelta
Gesù arriva alla fine dei suoi intensi tre anni con un pugno di mosche in mano: l’umanità non ha capito. I suoi discepoli, preziosi e amati, sono fermi alla contraddizione del potere e della gloria e inchiodati al proprio (evidente) limite; i capi religiosi avvertono la forza destabilizzante della sua predicazione; la folla segue il vento della moda. Gesù non ha alcuna possibilità di farcela, la sua scommessa è persa. Non è servito, non è bastato, non è sufficiente tutto l’amore che ha donato.
Forse aveva ragione l’avversario, là nel deserto: troppo ingenuo questo modo di operare. Davvero Dio pensava di trattare con gli uomini alla pari? Di aprire il loro cuore col sorriso? Di presentarsi vulnerabile?
La scelta da fare, ormai, è una sola: andarsene, rinunciare, gettare la spugna.
Occuparsi - chissà - di un altro mondo. Oppure…
Il dono
Oppure lasciarsi travolgere, sparire, morire. Lasciare che le tenebre vincano, lasciare che le cose prendano la loro piega, osare. Osare fino a morire appeso ad una croce, fino all’eccesso.
Altro è dire: “Dio vi ama!”, altro morire.
Altro dire: “Il Padre vi perdona!”, altro pendere, nudo, da un palo. E perdonare.
Una cosa è parlare, un’altra morire. Urlando.
Capiranno, gli uomini? O Dio sarà uno dei tanti sconfitti della storia, dimenticati?
La posta in gioco è immensa: l’esistenza stessa di Dio.
Quanti crocefissi sono morti nella storia antica? Cinquecentomila? Un milione? Di quanti di loro ricordiamo il nome e la vita? Di nessuno.
Il rischio che Dio corre in questo gesto è quello di scomparire per sempre. L’uomo avrebbe continuato ad immaginarsi Dio con un volto proiettando in esso i propri desideri. O le proprie paure.
Gesù accetta, rischia, si dona. Forse sarà tutto inutile, come insinua l’avversario nell’orto degli ulivi.
Forse.
L’agonia di Gesù, nell’orto degli ulivi, l’agonia che lo fa sudare sangue, è tutta lì, in quella scelta. Non nel dolore che Gesù deve affrontare, non nel senso di abbandono da parte dei suoi, no.
Il dolore, inaudito, che Gesù prova, nasce dal dubbio dell’inutilità della sua scelta definitiva.
L’avversario, che torna ora che è giunta l’ora, cerca di scoraggiarlo: “è tutto inutile”.
Inutile: non vedi che ti stanno venendo a prendere per arrestarti? Inutile: i tuoi stanno dormendo, non hanno capito la gravità della situazione. Inutile, l’uomo non cambierà mai.
Gesù accetta, corre il rischio, si dona. Morirà.
Lì, appeso alla croce, Dio è evidente, inequivocabile, non vi è alcuna possibilità di ambiguità.
Il cuore della passione di Cristo è l’amore, non la violenza.
Gesù muore affidando al Padre il proprio cuore, e donando a noi lo Spirito.
Dio è evidente: osteso, mostrato, nudo. Dio è così, amici: arreso. A noi, ora, la prossima mossa.
Siateci
Il sole sta calando, il freddo che sale dal deserto si fa sentire. È l’ora di andare a pregare nel silenzio del Getsemani. Pregherò anche per voi, per tutti, amici preziosi e sconosciuti ospiti.
Un invito sommesso, a chi legge queste pagine: siateci.
Nella povertà delle nostre assemblee, ritagliando spazio e tempo ai nostri mille pressanti impegni, siateci. Giovedì sera alla Messa che ci ricorda l’istituzione dell’Eucarestia, venerdì nella grande e sofferta celebrazione della Croce, Sabato nella lunga e luminosa notte della Resurrezione. Tre giorni che ci accompagneranno, spero, a ridire la nostra fede, a riscoprire il dono, a cambiare la vita.
Abbiamo il coraggio, in questi giorni, di rimetterci in gioco, di identificarci.